Storia

Gli ottant'anni della Portela: si combatte e si gettano le basi dell'autonomia

Nella notte dell’8 settembre anche il sottotenente del Primo Reggimento Granatieri di Sardegna Edo Benedetti, che poi diventerà sindaco di Trento, prese una decisione: quella di non arrendersi ai tedeschi.
PRIMA PARTE La strage della Portela
SECONDA PARTE La guerra arriva dal cielo
TERZA PARTE Dopo le bombe l'armistizio
QUARTA PARTE La speranza di pace dura poco
QUINTA PARTE I tedeschi prendono il controllo
SESTA PARTE Un esercito in rotta
SETTIMA PARTE Gli italiani come schiavi
OTTAVA PARTE Una marcia verso il Brennero
LA GALLERY Le immagini dopo il bombardamento

Nella notte dell’8 settembre anche il sottotenente del Primo Reggimento Granatieri di Sardegna Edo Benedetti, che poi diventerà sindaco di Trento, prese una decisione: quella di non arrendersi ai tedeschi.

Dislocato in Puglia, presidiava con gli uomini del suo reparto una zona fra Gioia del Colle e Taranto per contrastare un possibile aviosbarco anglo-americano che poteva avere come obiettivo la conquista degli aeroporti disseminati in quella zona. I granatieri erano armati di mitra e bombe a mano e mentre il re, il governo, i vertici delle forze armate fuggivano da Roma, i tedeschi circondarono anche il reparto di Benedetti. Ma il sottotenente conosceva bene la zona e nella notte filtrò col il suo reparto fra i soldati tedeschi per mettersi in marcia verso sud.

Nelle ore successive apprende che il re e il governo si sono trasferiti a Brindisi ed ecco il sottotenente Benedetti con i suoi soldati marciare verso quella città. Le divise sono logore, il drappello marcia in perfetto ordine, incrocia soldati inglesi, arriva a Bari mentre riprende la guerra per liberare l’Italia. I soldati vengono concentrati nel campo sportivo della città, passati in rassegna dal principe Umberto, riorganizzati, riarmati, mandati a combattere a Monte Lungo: i Granatieri avranno di fronte i paracadutisti germanici della divisione “Hermann Göring” fra i quali combatte Mario Iori che poi, chiamato “Marmolada”, gestìrà il famoso rifugio alla Fedaia. Benedetti entrò in Roma fra i primi soldati italiani, a bordo di una jeep americana il 5 giugno del 1944. Aveva già incontrato Paolo Berlanda che dopo l’8 settembre, comandato negli uffici dello Stato Maggiore a Brindisi, fin dall’inverno del 1943 aveva costituito un centro di relazione e di contatti fra i militari trentini che si trovavano a sud della Linea Gotica o nei campi di prigionia alleati e le loro famiglie.

Più di tremila nomi, tremila storie di trentini che dai microfoni della Radio Vaticana potevano mandare messaggi alle famiglie residenti nel territorio occupato dai tedeschi e in quello incorporato nel Reich. Attraverso Berlanda, Edo Benedetti aveva incontrato anche Aldo Bertoluzza, che poi a Trento fonderà il Centro Culturale Fratelli Bronzetti. Da qualche tempo Bertoluzza scriveva un giornaletto destinato ai soldati trentini; soprattutto gli parlò di Alcide Degasperi. Dalla penombra della guerra perduta, l’Italia vedeva riemergere proprio in quei tragici mesi, la figura di Alcide Degasperi, personaggio inconsueto e rassicurante perché non assomigliava né ai santoni della politica dell’epoca prefascista, ma neppure ai tribuni quali erano Togliatti, Nenni e Scoccimarro. Edo Benedetti incontrò Degasperi in Vaticano l’8 giugno del 1944. “Mi ha ricevuto in un locale adiacente la Biblioteca Vaticana, in un piccolo ufficio, il suo, in una stanzetta dove c’erano due tavolinetti e una poltroncina.

Appunto in Vaticano si era rifugiato nel 1929, dove lavorò soprattutto nella biblioteca, con umili mansioni che gli permettevano a malapena di sopravvivere. Facendomi entrare, mi aveva detto che i trentini li vedeva sempre molto volentieri. Mi ha dato subito l’immagine di un uomo molto rigido, molto serio, che non sorrideva ed io mi sono sentito un po’ in imbarazzo, ma anche affascinato da quello sguardo severo, piuttosto triste, ma di uomo intelligente. Ricordo benissimo il suo viso pallido, i soliti occhiali da miope, dalla montatura chiara su quel viso sereno. Presentandomi in divisa americana, gli ho detto che abitavo a Rovereto e subito lui mi ha accennato a Rosmini. In verità, a quei tempi la mia conoscenza di Rosmini era molto limitata; del resto ero ancora un ragazzo e mi trovavo in mezzo ad una guerra.

Per prima cosa mi ha chiesto come mai mi trovavo a Roma e gli ho spiegato un po’ tutto; vedevo che sapeva alcune cose ma altre non le conosceva. Per esempio, era pochissimo informato su alcune situazioni che si erano create nell’Italia del Sud. Conosceva esattamente l’evoluzione politica, mentre era poco informato sui movimenti delle truppe alleate. Degasperi mi ascoltava molto attentamente, prendeva anche degli appunti, di tanto in tanto mi faceva qualche domanda. Di colpo mi disse: Cosa ne pensa? Io ero in soggezione e gli risposi: intanto siamo a Roma e noi Granatieri siamo dislocati a Monte Mario, a presidiare l’Eiar, l’Ente Italiano Audizioni Radiofoniche che dopo la guerra si chiamerà Rai.

Poi Degasperi cominciò a parlare di quel clima nuovo che si doveva creare in Italia, mi fece una lezione sul significato di democrazia e su come doveva funzionare nel nostro Paese, come ci si doveva riscattare dalla dittatura fascista e passare ad un sistema democratico, un transito che poteva avvenire solo attraverso l’impegno dei partiti. Aveva una chiara idea dei partiti, ricordandomi che i cattolici dovevano impegnarsi con forza, per portare una nota di tradizione, di civiltà e di cultura da poter costituire la base di un Paese che sta rinascendo.

All’improvviso mi domandò: cosa pensa del futuro della Regione Trentino Alto Adige? Non avevo neanche idea di cosa fosse una regione; sapevo solo che il Trentino e l’Alto Adige erano territori del Terzo Reich, ma Degasperi cominciò a farmi un quadro che divenne subito interessante. Aveva già lì, su un tavolo e in un cassetto, dei foglietti scritti a mano con la sua scrittura bella e molto nitida, con correzioni, cancellature, sottolineature. Me li mostrò quasi ad indicarmi che era già avanti con gli studi. Ricordo le parole esatte: dovremo poi pensare anche alla nostra terra e dovremo arrivare ad una soluzione adeguata alla nostra realtà territoriale.

Evidentemente, da tempo meditava sulla questione e lui stava già preparando lo statuto regionale. Poi disse: dovremo realizzare questa Regione Trentino Alto Adige. Dovrà essere un contenitore, anzi una cornice, entro la quale dovranno convivere i tre gruppi etnici, quello italiano, tedesco, ladino. Lo disse puntando gli indici sul tavolino, disegnandovi una cornice. Per la verità, dei ladini sapevo poco, anzi niente. Avevo vent’anni, la mia conoscenza era quella che era. Degasperi aveva sentore di una difficile convivenza perché più volte mi disse con foga e convinzione: dobbiamo convivere con quanti a nord di Salorno parlano e parleranno sempre tedesco. Poi cominciò a parlare del futuro statuto, della realtà regionale e anche di alcune competenze. Ne ricordo due bene. Una era la scuola perché, disse Degasperi, la scuola austriaca sapeva insegnare ed educare, quindi da noi si doveva mantenere quel patrimonio.

La seconda competenza si riferiva al demanio forestale che doveva essere valorizzato perché è una ricchezza, comunque lui l’aveva messo ai primi posti nel quadro dello statuto che stava elaborando. Degasperi, ricordava Benedetti, aveva bene in mente il futuro della Regione; non so se in quel mese del 1944 pensava di diventare l’uomo chiave della politica regionale; certamente non vedeva l’ora di tornare nel Trentino, certamente aveva la volontà di impegnarsi fino in fondo alla realizzazione di quel disegno. Non ho idea se si considerava solo il promotore oppure il protagonista della futura politica. Bisogna tornare con la memoria a quel tempo. Io ero un giovane soldato, con addosso la divisa di foggia americana ed ero un badogliano, fedele al re. Lui era l’uomo destinato a diventare il Presidente della ricostruzione ed era di sentimenti repubblicani.

Però ricordo che nel suo discorso erano chiarissimi alcuni principi: il senso dell’unità d’Italia, il desiderio di vedere gli italiani capaci di acquisire un’identità e la realizzazione della Regione Trentino-Alto Adige come strumento importante per garantire la pacifica convivenza dei tre gruppi etnici. Aveva già in testa l’immagine dell’autonomia. Ovviamente non mi parlò di un consiglio regionale, ma mi accennò ad una struttura che doveva essere quella cornice entro la quale far convivere i tre gruppi etnici. Appena finita la guerra firmò con il ministro degli esteri austriaco Gruber l’accordo che garantiva agli altoatesini di lingua tedesca ampi diritti e larghissima autonomia, ma sanciva l’intangibilità della frontiera del Brennero. Dicendomi che stava lavorando pensando ad un recupero democratico dell’Italia, mi parlò della Repubblica ed io, che ero monarchico, stavo sulle mie. Del resto, vestivo una divisa che portava i simboli dei Savoia.

Fu un incontro piacevolissimo e alla fine mi ha persino sorriso e, cosa rarissima per Degasperi, mi ha dato un paio di pacche sulle spalle. Mi ha fatto gli auguri e mi ha accompagnato fino al presidio delle guardie svizzere, dove ci siamo salutati”. Degasperi tornava al suo lavoro, Edo Benedetti alla guerra. Che continuava violentissima. L’Italia, quella monarchica, quella fascista, si stava dissolvendo ma da quelle ore di angoscia un’altra Italia nasceva dalle ceneri di una guerra perduta.

(9. continua)

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