Storia

Gli ottant’anni della Portela: un esercito in rotta

PRIMA PARTE La strage della Portela
SECONDA PARTE La guerra arriva dal cielo
TERZA PARTE Dopo le bombe l'armistizio
QUARTA PARTE La speranza di pace dura poco
QUINTA PARTE I tedeschi prendono il controllo
LA GALLERY Le immagini dopo il bombardamento

di Luigi Sardi

Nella notte dell’8 settembre di 80 anni fa, riuscì a fuggire ai tedeschi anche l’ingegnere Alberto Crespi, l’ufficiale che si trovò un carro armato in piazza Alessandro Vittoria con il cannone puntato sul portone dell’attuale edificio della Camera di Commercio.

Ecco il suo racconto: “Strisciando per terra raggiunsi l’atrio dove chiamai a gran voce i quattro Alpini ordinando loro di raggiungermi; fui raggiunto da tre mentre uno o non sentì il mio ordine o non volle eseguirlo e scomparve. Seppi in seguito che si era rifugiato nel ricovero antiaereo dove venne fatto prigioniero dai tedeschi. In quello stesso momento il carro armato sfondava la porta e un nugolo di armati entrava nel palazzo sparando a più non posso. A questo punto sparai gli ultimi tre colpi della mia pistola mentre nel buoi un Alpino sparava alcuni colpi di fucile. Di gran corsa ci precipitammo lungo le scale e riuscimmo a chiuderci alle spalle un cancelletto di ferro. Salimmo fino agli abbaini e prendemmo la via dei tetti calandoci poi nell’edificio di via Dordi che attualmente porta il numero 4. Bussammo a tutte le porte ma nessuno rispondeva; venimmo poi a sapere che tutti, ai primi colpi d’arma da fuoco, erano corsi nel rifugio antiaereo. Per nostra fortuna trovammo una porta socchiusa ed entrammo. Fu una notte terribile, di grande angoscia. Non sapevo che fare, non avevo mai patito tanto neppure durante i tragici giorni della ritirata in Russia. Allora, almeno, avevo ancora qualche cosa in cui credere. Alle prime luci dell’alba, visto che nessuno dei proprietari dell’appartamento si faceva vivo, dissi ai miei Alpini di prendere degli abiti borghesi da un armadio, di uscire alla spicciolata e ritornare a casa”.

Non deve essere stato facile per un ufficiale in guerra decidere di abbandonare il posto e le armi, gettare l’uniforme, indossare abiti borghesi e cercare di tornare a casa, ma quella fu una scelta generale e immediata, un atto comune, l’ultimo segno di una unità di intenti prima della guerra civile.

Continua il racconto di Crespi: “Lasciai un biglietto col mio nome e il mio grado al proprietario dell’appartamento, scusandomi. Poi, a guerra finita, dovetti rimborsare di persona i vestiti presi, ma lo feci di buon grado e dall’ edificio, uscii, in divisa, dopo i miei Alpini. Stava passando un uomo in bicicletta, probabilmente un operaio vestito con una tuta che, vedendomi, si fermò di botto gridandomi di tornare indietro, che i tedeschi stavano facendo prigionieri tutti i soldati italiani. Gli dissi che non potevo tornare indietro, che arrivavo dall’Ispettorato occupato dai tedeschi. Allora quello si levò la tuta, me la fece infilare sulla divisa, e mi portò sulla canna della bicicletta fino all’albergo Minerva dove avevo alloggio. Tutti e due piangevamo. Non ho mai saputo chi era quell’uomo che con tanto umano coraggio mi risparmiò due anni di prigionia nei Lager tedeschi. Non l’ho mai saputo, ma era certamente un trentino, e da quel giorno io trasferii a tutti i trentini quel debito di riconoscenza che avevo nei suoi confronti. E’ un debito che ancora non ho finito di pagare e che orami è diventato amore sereno verso una terra che ogni giorno di più riconosco generosa, umanamente forte e insieme gentile”. Questa eccezionale testimonianza la scriveva Crespi su L’Adige di domenica 16 settembre 1973. C’è anche la storia dell’Alpino Gioacchino Parisi.

Catturato nelle caserme di via Mattioli non aveva mai trovato il momento giusto per tentare la fuga. Alle 5 di sera dell’11 settembre fu fatto salire sulla tradotta per la Germania. Un attimo prima che il treno partisse, si buttò dal vagone precipitandosi verso gli edifici della dogana. Una sentinella sparò una raffica di mitra, Parisi sentì i proiettili sibilargli intorno, si buttò in un mucchio di segatura e si infilò in profondità. Rischiava di soffocare ma non si mosse. Sentì partire il treno. Poi udì dei passi, vide un operaio addetto allo scalo ferroviario, uscì dal nascondiglio e pochi istanti dopo la sua divisa lasciò il posto ad una tuta da meccanico addetto al reparto locomotive. Nella notte dell’8 settembre anche il sottotenente del Primo Reggimento Granatieri di Sardegna Edo Benedetti, che poi diventerà sindaco di Trento, prese una decisione: quella di non arrendersi ai tedeschi. Dislocato in Puglia, presidiava con gli uomini del suo reparto una zona fra Gioia del Colle e Taranto per contrastare un possibile aviosbarco anglo-americano che poteva avere come obiettivo la conquista degli aeroporti disseminati in quella zona. I granatieri erano armati di mitra e bombe a mano e mentre il re, il governo, i vertici delle forze armate fuggivano da Roma, i tedeschi circondarono anche il reparto di Benedetti.

Ma il sottotenente conosceva bene la zona e nella notte filtrò col il suo reparto fra i soldati tedeschi per mettersi in marcia verso sud. Nelle ore successive apprende che il re e il governo si sono trasferiti a Brindisi ed ecco il sottotenente Benedetti con i suoi soldati marciare verso quella città. Le divise sono logore, il drappello marcia in perfetto ordine, incrocia soldati inglesi, arriva a Bari mentre riprende la guerra per liberare l’Italia. I soldati vengono concentrati nel campo sportivo della città, passati in rassegna dal principe Umberto, riorganizzati, riarmati, mandati a combattere a Monte Lungo: i Granatieri avranno di fronte i paracadutisti germanici della divisione “Hermann Göring” fra i quali combatte Mario Iori che poi, chiamato “Marmolada”, gestìrà il famoso rifugio alla Fedaia. Benedetti entrò in Roma fra i primi soldati italiani, a bordo di una jeep americana il 5 giugno del 1944. A Vipiteno il capitano Vittorio Tranquillini, che a Trento abitava in via Bonporti - lo si legge sul periodico dell’Ana di Trento Dos Trent – “obbedendo agli ordini superiori portava la batteria in una caserma di Vipiteno consegnando i cannoni e gli uomini a pochi militari tedeschi. A Nikolajewka quell’ufficiale aveva sparato le ultime cannonate, forse 8 colpi comunque gli ultimi, centrando una postazione di mortai russi che sbarravano il passaggio agli esausti uomini della Tridentina”.

Ancora dal Dos Trent: “Consapevole della gravità della situazione, riunì il suo reparto e con la voce rotta dalla commozione salutò e ringraziò per quanto avevano fatto in quegli anni e per l’amicizia dimostratagli. Erano soldati che avevano combatto in Russia, nella pianura del Donez; Tranquillini li aveva portato fuori dalla terribile sacca nel tremendo inverno del 1942”. Erano veterani costretti ad arrendersi a pochi tedeschi. “In quel momento un soldato tedesco si faceva consegnare da ufficiali e sottufficiali le pistole d’ordinanza. Anche il capitano Tranquillini, l’uomo che comandò con grande coraggio e fermezza la 20° Batteria in momenti estremamente difficili, consegnò la sua arma, non prima però di aver sparato l’intero caricatore verso terra. Con questo pericoloso preambolo affrontò il campo di concentramento in Polonia”.

(6. continua)

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