Storia

Gli 80 anni della strage della Portela: dopo le bombe, l’armistizio

Mentre a Trento si scava fra le macerie della Portèla, a Cassibile, in Sicilia, l’Italia firma la resa incondizionata nelle mani di “Ike” Eisenhower
PRIMA PARTE La strage della Portela
SECONDA PARTE La guerra arriva dal cielo
LA GALLERY Le immagini dopo il bombardamento

di Luigi Sardi

La resa dell’Italia avviene in Sicilia, a Cassibile, in una tenda militare alle ore 17 in punto del 3 settembre del ’43 mentre a Trento si scava fra le macerie della Portèla. Giuseppe Castellano, il generale italiano veste un doppio petto scuro da cerimonia, il fazzoletto bianco che sporge dal taschino della giacca, la cravatta scura su una camicia bianca dai polsini e dal colletto inamidati e i capelli, con la scriminatura perfetta, luccicano per la brillantina.

Lo sovrasta Dwight David Eisenhower che indossa la divisa da campagna. Pantaloni e camicia cachi con le maniche rimboccate. La stilografica del generale italiano non funziona, un ufficiale americano sfila la sua dal taschino della giubba. La stretta di mano è per le fotografie.

A Trento, i corpi dei morti nel bombardamento, ripuliti con acqua presa dalle fontanelle e composti nella navata della chiesa di Santa Maria Maggiore, vengono trasferiti in un silenzio irreale con carretti e qualche autocarro dell’Esercito, al camposanto dove si stanno scavando le fosse. Nell’ospedale, medici, infermieri, parenti dei feriti si preparano ad affrontare un’altra notte piena di tragedie e di paure. I medicinali scarseggiano, mancano le bende, i letti, gli anestetici. Le suore accorrono fra gente che piange, implora, urla dal dolore.

Nella Capitale c’è un problema. Bisogna conoscere la data in cui l’armistizio sarà annunciato. Gli alleati la avevano già fissata per mercoledì 8 settembre ma si guardarono bene dal comunicarla perché quella era anche la giornata dello sbarco a Salerno. E’ certo che a Roma, schiacciati dall’incubo dei tedeschi, si era in pieno panico.

L’Agenzia Reuter dà il primo “lancio” alle 5 di quella sera; Radio Algeri, che si sente benissimo anche a Berlino, trasmette che in serata il generale Eisenhower annuncerà l’armistizio. In piena confusione il capo di Stato Maggiore dell’Esercito Mario Roatta corre dai tedeschi a giurare che è un falso, che l’Italia è e sarà sempre fedele alleata dei tedeschi.

Ma alle ore 18.30 dell’8 settembre Radio Algeri annuncia per voce di Eisenhower, e anche i tedeschi ascoltano stupefatti, la frase fatidica: “Italy has signed an unconditional armistice with the Allies, general Dwight D. Eisenhower has announced”. Allora Badoglio, in abito borghese per non dare nell’occhio, si avviò verso la sede della radio per annunciare l’armistizio.

Raccontava quel grande studioso di teatro che fu Fabio Storelli, di aver appreso alla Rai di Roma, da un testimone di quella giornata, quanto avvenne all’Eiar. Togliendosi il cappello grigio, che si dimenticò di riprendere a trasmissione avvenuta, Badoglio entrò nell’edificio. Un dirigente accorso immediatamente, spiegò al Capo del Governo che l’ora più adatta era quella del giornale radio. Bisognava attendere la fine del programma in onda, insomma poco meno di mezz’ora da trascorrere in un salottino.

L’ultima canzone trasmessa quel pomeriggio fu “Vieni, c’è una strada nel bosco” cantata da Gino Bechi. Badoglio entrò nell’ auditorio O, dove era stato convocato l’annunciatore Giovanni Battista Arista. Erano le 19,30 quando venne messa in onda la Marcia Reale. Poi l’annunciatore presentò il maresciallo ed esterrefatto, lo ascoltò mentre leggeva lo storico documento: “Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la schiacciante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi danni alla nazione, ha chiesto l’armistizio al generale Eisenhower. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”.

Lui chiese: Come sono andato? Gli risposero “Benissimo”. Ma cosa potevano dirgli quei tecnici accorsi sulla soglia dello studio radiofonico, sorpresi e intimoriti dalla straordinarietà dell’evento?

Erano le 19,45, la radio diffusero l’illusione che la guerra fosse finita, ma né il governo, il re, i generali pensarono ai 250.000 soldati dislocati in Corsica e in Provenza, ai 300 mila in Albania, ai 300 mila in Iugoslavia, a quelli in Grecia, nelle isole del Mare Egeo, sul territorio metropolitano, in Alto Adige dove dal Brennero a Lavis si erano concentrate truppe della Wehrmacht, accolte con gioia dalla popolazione che per sentimento, tradizione, lingua non era mai stata italiana.

Si legge su “Il Popolo Trentino” del gennaio del 1948 negli articoli scritti da cronisti che avevano vissuto le tragedie del Quarantatre, cosa avvenne a Trento. “Verso la fine di luglio le forze germaniche vennero via via moltiplicandosi e il trasferimento delle colonne dirette al fronte del sud avveniva in ferrovia e, di notte, lungo la statale del Brennero” che all’epoca attraversava Lavis, Gardolo, la città, Mattarello. Truppe autotrasportate che oltrepassavano velocemente i centri abitati dirette al fronte nel meridione d’Italia. Alla fine d’agosto “si videro i tedeschi stendere linee telefoniche lungo la sponda sinistra dell’Adige; pattuglie tedesche iniziarono a presidiare le ferrovie, i ponti, incroci stradali. Si capì che quei presidi non erano concordati con il Regio Esercito e che nessun cameratismo si notava fra i militari della Wehrmacht e i soldati italiani. Poi” - lo documenta il giornale – “si intensificarono i trasferimenti di truppe, carri armati e pezzi di artiglieria in località a ridosso della città. I tedeschi avevano intercettato le comunicazioni fra Roma e gli americani e pur non avendo ancora decifrato i messaggi, si preparavano a fronteggiare ogni evenienza”.

A Trento le radio a galena, le uniche disponibili, annunciarono l’armistizio. “Fu una bomba che agì in modo galvanizzante più che sulla popolazione, sulla truppa. La gente restò perplessa; da un lato, un cumulo di ansie che tramontava, dall’altro preoccupazioni nuove che intorbidavano l’orizzonte”. Fu chiaro che accolta la richiesta di resa, la guerra con gli anglo-americani finiva, ma i tedeschi erano in città e da tempo, le autocolonne germaniche cariche di soldati e di armi transitavano dirette al fronte del sud.

Come era accaduto nel maggio del 1915 quando Vittorio Emanuele III aveva rotto la trentennale alleanza con Vienna dichiarando guerra all’Austria-Ungheria. “Qualche sintomo di gioia nelle famiglie, qualche brindisi nei caffè, ma in forma contenuta, con un’ampia riserva di prudenza. Non così la truppa. Nelle caserme la notizia dell’armistizio divampò come un incendio in pieno vento. Fu una generale esplosione euforica costellata di grida gioiose, di canti, di abbondanti bevute. I locali pubblici furono invasi in un battibaleno da una marea grigio verde inneggiante alla guerra conclusa. Alle 20 veniva la conferma ufficiale col proclama di Badoglio radiodiffuso su tutte le stazioni della rete nazionale e solo all’ora del coprifuoco tornò lentamente il silenzio nelle strade e nelle caserme. Cominciava una notte memorabile densa di avvenimenti e di incubi” come si legge nella ricostruzione fatta da “Il Popolo Trentino”.

In città, e i testimoni di quella notte furono davvero pochi perché i trentini, erano chiusi in casa per il coprifuoco durante il quale era pericoloso anche affacciarsi a finestre o balconi: non era mai accaduto, ma c’era il rischio di una fucilata sparata dalle pattuglie che avevano il compito di convincere i cittadini a stare in casa e a luci spente.

Pochi, presi dall’emozione dell’annuncio dell’armistizio, lo avevano notato. Tutte le pattuglie di soldati tedeschi, i picchetti di guardia, anche i singoli militari in libera uscita che frequentavano soprattutto via del Suffragio e la zona di San Martino dove c’erano anche donne di gonna svelta e si beveva buon vino, erano spariti.

In via Rosmini, nella redazione de “Il Brennero” il giornale voluto dal fascismo, quella sera i cronisti si riunirono, avendo il permesso di circolare nelle ore del coprifuoco.

Ancora da “Il Popolo Trentino”: “Penetriamo per un istante nella sua redazione, collochiamoci dinanzi al suo telefono ed ascoltiamo cosa accade. Il direttore di una notte come fu chiamato Pugliese che firmò un solo numero del giornale, “meditava il suo articolo di fondo” certamente non facile visti gli accadimenti. “Conclusione” doveva essere il titolo, in base alle direttive fornite direttamene dall’Ente Stampa che aveva sostituito il Minculpop come sigla ma non come sostanza per via della ferrea censura imposta da Badoglio. “Le direttive confermavano la necessità di non mutare l’orientamento politico dei giorni precedenti e di seguire con simpatia gli sviluppi della guerra tedesca” cioè degli alleati del giorno prima, che in quei minuti stavano diventando nemici. “A questo punto era giunta la distanza della sfera dirigente romana, dalla realtà che ci aspettava sulla strada del Brennero con le colonne germaniche che si muovevano verso il sud. Il tenore delle direttive veniva confermato telefonicamente poco prima di mezzanotte. A distanza di minuti altre telefonate di carattere riservato”, ma i genieri tedeschi ascoltavano ogni conversazione, “informavano da Bolzano che c’era da stare all’erta. Forze germaniche avevano in quel momento forzato il passo di Resia e procedevano verso sud. A Fortezza si era aperto il fuoco fra truppe italiane e tedesche. Poi, a distanza di minuti, segnalazioni di episodi analoghi arrivavano da altre località. Colpi d’arma da fuoco anche a Bolzano. La situazione in Alto Adige precipitava. Come comportarsi? Chiedere informazioni al Comando di Presidio? Pugliese tentenna né gli si può dar torto vista l’eccezionalità del momento e la scarsa vena giornalistica soffocata da un ventennio di censura". Si decise di telefonare al generale Canegallo comandante del presidio di Trento. Rispose l’ufficiale d’ordinanza. Il signor generale era andato a dormire e non conveniva importunarlo. Un colonnello, forse si chiamava De Rosa, disse “che non c’era di che preoccuparsi. L’ordine era dovunque sotto controllo”.

L’unico ufficiale ad intuire cosa stava per accadere fu il colonnello Michele De Finis comandante dei Carabinieri Reali. Incontrandolo per caso in via Santa Margherita, apprese da Ernesto Guerrieri, commissario governativo dell’Ente finanziario della Provincia, che la radio aveva appena trasmesso la notizia dell’armistizio. L’ufficiale dell’Arma andò in prefettura e informò Tomaso Pavone che non avendo ascoltato la radio, non sapeva cosa era accaduto e nessuno lo aveva informato. De Finis gli disse di telefonare al generale Alessandro Gloria, comandante a Bolzano del Corpo d’armata e, mentre si cercava il generale, suggerì di far rientrare tutti i soldati nelle caserme: per averli pronti ad ogni evenienza, per evitare ogni contatto con i tedeschi, per attendere vicino alle armi, gli eventi.

Dopo il bombardamento del 2 settembre, i reparti di fanteria erano stati trasferiti nella zona di Pinè, gli Alpini comandati dal colonnello Ezio Garbari a Sant’Orsola e a Palù del Fersina mentre un reparto di artiglieria era stato dislocato a Coredo. I militari in città non erano molti; De Finis insisteva: meglio tenerli nelle caserme.

Gloria disse di non essere stato informato; si dichiarò certo che, se un fatto del genere fosse accaduto, lo avrebbero certamente avvertito ed era convinto che se era stato concluso un armistizio, sarebbe certamente avvenuto con il consenso di Hitler. La radio non l’aveva sentita, neanche i suoi ufficiali l’avevano ascoltata e di fronte ai dubbi di De Finis, fece una battuta che voleva far ridere: “I carabinieri vedono tutto nero perché sono vestiti di nero”. E interruppe la comunicazione.

(3. continua)

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