Storia

La guerra arrivata dal cielo: la Portela ridotta a macerie

Ottant'anni fa il violento bombardamento su Trento che colpì soprattutto l'area di piazza della Portela

PRIMA PARTE La strage della Portela
LA GALLERY Le immagini dopo il bombardamento

di Luigi Sardi

Per anni, quei ruderi nel cuore della città, a ridosso della chiesa di Santa Maria Maggiore, ricordavano il giorno in cui Trento aveva conosciuto la guerra arrivata dal cielo. Un altro contributo importante alla conservazione della memoria arrivò dal giornale L’Adige con l’articolo di Gino Callin pubblicato nella terza pagina del quotidiano di domenica 2 settembre 1973.

Sono brevi, intensi brani di vita quotidiana spezzata, anche per capriccio del destino, dal bombardamento. Quasi nessuno pensava che gli Alleati avrebbero sprecato le bombe per una città piccola come Trento e quando comparvero i bombardieri, molti scesero nel rifugio allestito nelle cantine della Cassa Malati.

Alcune panchette di legno verniciate di bianco era state sistemate lungo le pareti. Il soffitto era stato puntellato con travi, c’era un armadietto con medicinali di pronto soccorso e una bottiglietta di cordiale “per rianimare i pavidi”, come si leggeva nel quadernetto delle istruzioni che nessuno osava toccare.

Il bombardamento di Trento: la strage della Portela

Le foto sono tratte dal libro "I giorni della Portela e di San Martino" di Luigi Sardi (Temi)

E c’erano i secchi di terra da gettare sulle fiamme delle eventuali bombe incendiarie, le vanghette da trincea della Grande Guerra, le scatole di latta delle maschere antigas, i cartelli con la scritta “state calmi” e “vietato fumare”. Le bombe demolirono l’edificio, soprattutto l’angolo fra la piazza e via Prepositura. Nel sotterraneo rimasero imprigionati anche sette o forse nove dipendenti.

Morirono annegati perché il crollo spaccò le condutture dell’acqua inondando la cantina-rifugio; si salvò l’economo della Cassa, Giovanni Pigarelli che si precipitò fuori dall’edificio gridando a tutti di scappare. Invece venne schiacciato dalle macerie il ragioniere Vincenzo Turco che era allo sportello dell’ufficio cassa. Morì anche Alberto Pagnusat, che si era assentato solo qualche minuto per dire ai familiari di allontanarsi da casa e, rientrato nell’edificio, aveva appoggiato la bicicletta all’ingresso e il crollo lo seppellì. Morì Girolamo Trenner, mutilato di guerra. Era già nel rifugio, usci per far passare due donne: un gesto di altruismo fatale a Trenner e alle due donne: o schiacciati dalle macerie o annegati.

Morirono anche quelle persone, forse venti che, anche questo lo ha scritto Callin, erano alla stazione di partenza della funivia per Sardagna. La corsa era stata sospesa con l’allarme aereo, ma la gente non aveva lasciato la stazione. Tutti erano certi che sarebbe arrivato il segnale di cessato allarme, allontanandosi avrebbero perso il posto sulla gondola e avrebbero dovuto attendere la corsa successiva e fra una corsa e l’altra ci voleva un’ora. Sul ponte di San Lorenzo transitavano alcune persone: C’era anche un carro agricolo tirato da una coppia di buoi. Tutto ciò un attimo prima dell’ora zero. Erano le 11,57. Un altro carro trainato da buoi era arrivato da Spormaggiore e si era fermato vicino al ponte. Portava il mobilio di un impiegato postale trasferito in città che aveva trovato alloggio nella casa dove adesso sorge un edificio di sette piani con a pianterreno lo storico bar-ristorante “Dolomiti”.

Il carrettiere era Dario Bertò con Giovanni Battista Zeni, rispettivamente suocero e padre del giornalista Marco già direttore del settimanale “Vita Trentina”. Stavano portando i mobili nell’appartamento quando iniziò il bombardamento. Una bomba centrò, demolendola, la casa. I due uomini rimasero incolumi. Si salvarono anche i buoi. Le notizie dei disastri che i bombardamenti causavano in altre città, arrivavano sfumate dal bavaglio della censura. Sì, certo, c’era l’angoscia per i soldati trentini morti al fronte, feriti, congelati, dispersi, ma il dolore profondo che ne derivava veniva assorbito con quella dignitosa, tradizionale fermezza che aiuta quanti sono nati in questa terra a sopportare con coraggio e rassegnazione anche le prove più dure. Di quel 2 settembre sono svanite molte memorie. Ecco il racconto della morte di Antonio Pressan il figlio sedicenne del capo operaio addetto ai magazzini frigoriferi di via Lampi. Si era allontanato dalla zona quando gli venne in mente che bisognava chiudere le valvole dell’ammoniaca dei frigoriferi per evitare fughe di gas.

Tornò indietro e venne ucciso dallo spostamento d’aria. Sempre dall’Elenco dei Morti: la vittima più piccola è Gemma Foradori di Lino, di 2 anni; 22 sono quelle rimaste senza nome. Quel 2 settembre Aristodemo Piccoletto che aveva 11 anni, era in collegio. “Purtroppo non ho mai saputo come sia morta la mamma. Abitava in via Prepositura. Non si sa se morì in casa o mentre correva a cercare un riparo”. Lei è una delle vittime sepolte senza nome in una fossa comune.

Lungo le scale che portavano al rifugio aperto nelle cantine della Cassa Malati rimase ucciso Giovanni Bailoni, classe 1919, maestro, residente a Vigolo Vattaro, figlio di Sigismondo Bailoni. Era tenente di stanza a Verona e si trovava in licenza assieme ad un compaesano che si chiamava Libardi di origini vigolane anche lui in licenza per ferite riportate al fronte e anche lui ucciso nel crollo dell’edificio.

Forse Libardi - questo veniva ricordato però vagamente nel 1973 - era quel soldato che recatosi all’ospedale militare per un esame radiologico era stato dirottato alla Cassa Malati perché l’apparecchio in dotazione alla Sanità era rotto. Il nome di Bailoni è scritto nell’Elenco dei Morti opo quelli dei 9 militari uccisi dal bombardamento. A quei morti si devono aggiungere, ma la cifra è incerta, quanti come il pittore Gino Pancheri morirono nelle settimane successive per le ferite riportate. Il primo nome nell’elenco dei sepolti nel Campo VIII è Arturo Marzatico di Milano. Era uno dei pochi superstiti di Adua, arrivato a Trento nel 1927, titolare della Zincografia Tridentum. Raccontava Ulisse Marzatico, il famoso libraio, che al suono della sirena tutti si erano infilati nella cantina-rifugio allestita sotto casa, in corso Buonarroti, a fianco della ferrovia. Passato il bombardamento si cerca il nonno che non si trova. Ecco la corsa al cimitero, ecco le lunghe file di morti stesi per terra. Fra i cadaveri, il corpo del superstite della battaglia di Adua.

Anche il padre di Egidio Semprebon, quaranta anni fa titolare in Largo Carducci di un famoso negozio di macchine da scrivere e calcolatrici, morì vicino a casa. “Abitavamo in via Lavisotto a fianco della ferrovia e della caserma intitolata a Cesare Battisti.

Nel 1943 avevo 8 anni. Quando era suonato l’allarme, ero stato portato nel rifugio, una galleria scavata sotto terra ad un centinaio di metri da casa. Io, a mezzogiorno, portavo sempre il pranzo a mio padre che lavorava alla ditta Redi. Non vedendomi arrivare, si è diretto a casa e l’ha trovava vuota. Allora, mentre cominciava il bombardamento, si è incamminato verso il rifugio e proprio sull’ingresso, una scheggia lo ha ucciso”. Storie di morti, racconti di sopravvissuti. Marco Berlanda che 40 anni fa viveva al numero 80 di via Vittorio Veneto, nel 1943 aveva 11 anni e abitava nella casa che sorgeva all’incrocio fra via Pozzo e via Roma. “Ero in casa con mia madre quando sentimmo due colpi enormi e ci mancò il fiato. Non si vedeva nulla, per la polvere non si riusciva quasi a respirare. La casa tremava tutta, scricchiolava, si sentivano crolli, scrosci, grida confuse.

Noi ci abbracciammo ad un grande Cristo che era nella stanza, poi scappammo verso i giardini di piazza Dante. C’era il corpo di un uomo senza testa, era steso attraverso la strada e dovetti scavalcarlo. Ci rifugiammo nel greto dell’Adigetto”- all’epoca scorreva a cielo aperto dove oggi c’è il laghetto delle paperelle – “e ci restammo a lungo, ben dopo il cessato allarme. Poi tornammo verso casa. La nostra era l’unica rimasta in piedi, le altre erano macerie. Si sentiva gridare, piangere, chiamare. Venimmo portati alla Casa del Diavolo dove nelle cantine c’era un rifugio. La gente era terrorizzata, qualcuno si era buttato per terra nell’atrio del palazzo e continuava a gridare. Una crocerossina mi fece bere un bicchiere di cognac.

C’era gente che si aggirava fra le macerie, incapace di capire, come istupidita. Altri avevano cominciato a scavare, anche con le mani, perché da sotto i cumuli di detriti si sentivano le grida disperate dei sepolti vivi e alcuni vennero salvati”.

                                                                                                    (2. continua)

PRIMA PARTE La strage della Portela

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