Storia

Gli ottant’anni della Portela: i tedeschi prendono il controllo

Dopo il caos innescato dall'8 settembre, i fanti della Wehrmacht iniziano le operazioni per riportare l'ordine. A Gardolo si concentrano i prigionieri

PRIMA PARTE La strage della Portela
SECONDA PARTE La guerra arriva dal cielo
TERZA PARTE Dopo le bombe l'armistizio
QUARTA PARTE La speranza di pace dura poco
LA GALLERY Le immagini dopo il bombardamento

di Luigi Sardi

Si arranca verso il campo d’aviazione di Gardolo luogo scelto dai tedeschi per concentrare i prigionieri perché il prato era vasto, circondato da una rete metallica, con i capannoni spaziosi e la cucina per la mensa delle maestranze dove si poteva allestire il misero rancio quotidiano, in verità almeno in quei giorni identico anche per i tedeschi.

Durante la marcia di avvicinamento diversi militari riuscirono a fuggire buttandosi negli orti di Campo Trentino; uno sguardo alla sentinella per capire se guardava altrove, un salto deciso nel profondo del cespuglio e poi via, verso il casolare più vicino a gettare le stellette, implorare una camicia, una giacchetta, qualsiasi cosa per nascondere l’uniforme. Ricorda Viola Manci: “Al mattino, quasi all’alba, comparvero i primi soldati italiani che fuggivano. Dalla città aveva raggiunto Mesiano lungo la ripida stradina che dalla Busa corre per un breve tratto lungo la Fersina. Ci chiedevano vestiti civili e ci lasciavano le divise e dai loro racconti cominciarono ad arrivare le prime confuse notizie su quanto era accaduto nella notte. Giannantonio, mio fratello, consegnò camicie, pantaloni, maglie e nascose le divise. Tutti erano disarmati, tutti erano spaventati, qualcuno leggermente ferito”.

Mentre in città le colonne dei prigionieri raggiungevano il primo campo di concentramento, decine di soldati sfuggiti alla cattura avevano trovato un momento di asilo in case ospitali dove, abbandonata la divisa e vestiti indumenti borghesi, presero a piccoli gruppi la strada dei boschi. Raggiunsero Povo e il passo del Cimirlo, all’epoca la strada era un sentiero, per arrivare nella zona del lago di Caldonazzo dove non c’erano tedeschi o più esattamente, rari automezzi militari germanici percorrevano la statale della Valsugana. Presero quella via quanti, per lo più Alpini, si erano incamminati verso il Veneto. Andarono verso Cadine quanti avevano come meta la Lombardia.

Fuggirono quasi tutti gli ufficiali che alloggiavano in case private o nelle stanze dell’albergo Bristol. Tutti a piedi, camminando nei campi, dormendo nei boschi, elemosinando qualche cosa da mangiare, da vestire, cercando un posto sicuro per riposare. Il Regio Esercito che nei sogni del Duce e del re doveva conquistare il mondo, era stato ridotto in poche ore ad una massa di sbandati. A Gardolo nel vasto prato trasformato in aeroporto arrivò la lunga colonna di prigionieri; gli ufficiali vennero rinchiusi nella palazzina del campo d’aviazione approntato durante la Grande Guerra dagli austriaci e usato negli anni Trenta come scalo intermedio della rotta Milano-Monaco di Baviera-Berlino quando c’era la pace e il famoso Patto era veramente d’acciaio. Mentre accadeva tutto questo, nelle caserme e al ponte dei Cavalleggeri cominciava la traslazione dei corpi dei soldati uccisi.

Al cimitero i familiari di Mario Bailoni riconobbero il corpo del loro congiunto. Tornarono a Vigolo Vattaro poi scesero in città con un carro trainato da una coppia di buoi per riportare il loro congiunto al paese dove lo seppellirono. Forse quel ragazzo, che per caso si trovò quella notte di sentinella all’ingresso della caserma, fu la prima vittima di quella battaglia destinata a segnare l’inizio della Resistenza. Quanti nei giorni immediatamente successivi all’8 Settembre avevano fatto da interprete ai tedeschi, raccontavano, e lo avevano appreso dai discorsi ascoltati negli uffici soprattutto in quelli dell’ex Casa del Fascio, che ricevuto l’ordine di attaccare le caserme, i granatieri della Wehrmacht erano certi che si sarebbero trovasti di fronte ad una resistenza forte e organizzata. Per quello erano piombati sugli edifici dei corpi di guardia delle caserme sparando immediatamente ed erano rimasti sorpresi della facilità con la quale gli italiani si erano arresi.

Era successo a Trento, era accaduto in quasi tutte le altre città dove non era stato necessario sparare. Le pochissime fotografie che documentano quelle tragiche giornate mostrano masse di soldati italiani in file disordinate. A sorvegliarli, pochissimi militari tedeschi. I fanti della Wehrmacht, bombe a mano alla cintura e fucile in spalla, controllano centinaia di uomini in marcia verso le tradotte o le colonne di autocorriere del “Front Hilfe”, l’organizzazione di supporto logistico delle armate germaniche. Altre fotografie mostrano soldati tedeschi affiggere manifesti, qualche volta bilingui. Uno venne affisso in via delle Cave; incollato male, scivolò dal muro. Qualcuno lo raccolse, lo asciugò, lo piegò e lo nascose. Venne mostrato il 2 settembre del 1973 nella piazzetta che ricorda il bombardamento della Portèla. Ecco il testo: “La calma, l’ordine, la sicurezza in Italia è stata ristabilita dalle forze Germaniche. Per motivi di calma, ordine, sicurezza viene disposto quanto segue. 1) Tutte le armi bianche e da fuoco, compresi i fucili da caccia, come pure tutte le munizioni ed esplosivi devono essere consegnate subito al Comando nella Casa del Fascio. 2) Tutti gli apparecchi radio devono essere consegnati al comando in perfetto stato e con tutti gli accessori e con tutti i dati della licenza entro il 16 settembre 1943. 3) Tutti i veicoli da trasporto di ogni genere sono da consegnarsi subito alla caserma del 62° Fanteria con tutte le attrezzature e le ruote di riserva. Dopo la verifica seguirà la riconsegna. 4) Le aziende industriali, commerciali e i privati devono denunciare subito, per iscritto, tutti i tipi di carburanti posseduti”. Poi il manifesto, ma il tempo trascorso aveva reso poco leggibili le righe, indicava gli orari dei negozi e dei caffè ordinando che “dopo le ore 23 nessuno dovrà transitare per le strade, salvo gli autorizzati. Si stabiliva che come mezzo di pagamento in Italia vale soltanto la carta moneta in Lire italiane”.

Poi la litania delle minacce riservate a quanti non ubbidiranno prontamente. Compaiono, stampati su cartoncini i “Fahrterlaubnisschein”, i permessi di circolazione per automezzi sui quali è scritto che è severamente proibito circolare per uso privato In poche ore le restrizioni diventano totali. Da tempo, tutto il cibo era tesserato e la tessera annonaria con i suoi tagliandi era fra gli oggetti preziosi per la famiglia, soprattutto quando con la fine del Qurantatre il controllo tedesco divenne più severo. Trionfavano i succedanei. Viola Manci ricorda che si beveva caffè d’orzo e carcadè che ricordava i tempi dell’Impero, ma c’era anche l’Ovola a sostituire – lo si legge sugli annunci pubblicitari pubblicati da “Il Trentino” – le uova nella preparazione, in verità rarissima, di dolci, biscotti e pasticceria. L’Ovola era prodotta a Trento dalla “Berma” e venduta, così si diceva, anche in Germania. Prima dell’8 settembre, per il tabacco, compreso quello da pipa e da fiuto, era stato istituito uno speciale documento. Tutti gli uomini dai 18 anni compiuti e le donne dai 20 fino ai 54 anni, chissà perché venne fissato quel tetto d’età, avevano diritto di prelevare presso qualsiasi rivendita di monopolio sigarette, sigari o tabacco secondo il dettato della “carta di controllo”. Un documento piuttosto complicato: ogni carta portava un numero, il timbro del Comune che la rilasciava, il nome, il cognome, il domicilio e la data di nascita del consumatore ed era composta da un determinato numero di tagliandi indicanti i giorni di validità.

Si avvertiva che il prelevamento doveva aver luogo ogni due giorni per gli uomini e ogni quattro per le donne. Per ogni quantitativo di tabacco acquistato dal consumatore, il rivenditore doveva staccare dalla carta di controllo, il numero dei tagliandi corrispondenti. Per le sigarette era necessario un tagliando per 10 pezzi – le sigarette dette “paglia” venivano vendute sfuse – e i tagliandi variavano a seconda della qualità dei sigari. Erano i toscani, virginia, poi Minghetti, Trieste, Trento, Cavour, Branca, Avana, Dama, Roma e – i più rari e costosi – Impero. Guai a dire “mi sono fumato un Impero” o analoghe facezie. Anche se sparito dai colli fatali di Roma, la frase era disfattista e come tale, punita.

Al numero 8 di vicolo Cervara, Giuseppe Ranzi comperava pelli di volpe, martora, faina, scoiattolo e gatto. L’annuncio determinò la scomparsa degli ultimi gatti cittadini. Ma con il razionamento sempre più severo, erano scomparse anche le patate; si poteva prelevare due volte al mese una razione di 100 grammi di formaggio Asiago e 80 grammi di salumi stagionati, - questo valeva solo per la città - con i buoni di prelevamento n. 232 e 161. C’è il racconto di Gino Costa. Fuggito dalla caserma aveva raggiunto un’abitazione di Villazzano dove alloggiava il generale Filippi. L’ufficiale - si legge sul giornale “L’Adige” di domenica 9 settembre 1973, nell’articolo a firma di Gino Callin - “camminava nervosamente nella sala della villa, stringendo in pugno la pistola, deciso a non sopravvivere alla catastrofe di cui era stato impotente spettatore. Il dramma di quell’uomo, di ufficiale e di padre di due bambini si risolse il mattino seguente. Quando vide che tutto era perduto, quando lesse l’ultimatum che ordinava ai militari di presentarsi alla prima sentinella tedesca, ritenne doveroso dividere la sventura con i suoi soldati e si consegnò. Sempre a Villazzano, Costa incontrò un suo commilitone, l’Alpino Sterno Verna dell’Aquila. Scappava per i viottoli in mutande e canottiera. Costa gli procurò subito un vestito e lo accompagnò attraverso il Cimirlo fino a Calceranica. Verna prese il treno e dopo giorni di viaggio, e moltissimi furono i chilometri percorsi a piedi, raggiunse casa. Nel 1948 scrisse all’amico, annunciando che si era sposato. Il giorno delle nozze aveva voluto indossare quel misero vestito che il 9 settembre era stato la sua salvezza”. Al campo di Gardolo, si legge sulla prima pagina de “Il Popolo Trentino” di giovedì 8 gennaio 1948: “il quadro è pietoso.

Sono lassù anche i Carabinieri e gli agenti della Questura. Saranno tutti deportati, bisogna solo attendere i treni per il trasferimento in Germania. La sorveglianza attorno al campo è attivissima. Qualcuno ha tentato di fuggire ma è stato ucciso. A Bolzano, squadre locali, distinte da un bracciale bianco, corrono a dare la caccia ai nostri soldati. Lassù l’ammassamento dei prigionieri è lungo le rive del Talvera” e il primo reparto tedesco verrà fatto sfilare lungo la via dei Portici fra ali di tirolesi festanti. Nella primavera del 1944 Adolf Hitler in abito borghese, con il testa un cappello di feltro, si farà fotografare nel paese di Brennero mentre saluta una folla di tirolesi incolonnati e tenuti a distanza da soldati in divisa, ma senza elmetto o berretto e con al cinturone solo la baionetta. Un velo di truppa a dividere un Führer sorridente da una folla in festa nel paese del confine “sacro e inviolabile” nel verbo fascista. I tirolesi, si legge nelle memorie dell’ambasciatore Filippo Anfuso, “diventati tedeschi, erano felici di aver trovato la buona occasione per vendicarsi della guerra del 1915 e dell’Anschluss. Dopo l’8 settembre le autorità tedesche, per un verso favorirono il rientro in Alto Adige degli optanti trasferiti in Germania riammettendoli nel possesso delle loro vecchie proprietà legittimamente cedute in base agli accordi italo-tedeschi nel 1939 e che ora venivano espropriate agli italiani che le avevano acquistate.

Per un altro verso misero in atto una sistematica azione politica contro gli italiani, che indussero circa 70 mila di essi a trasferirsi fuori dalla regione, lasciando che gli allogeni altoatesini si appropriassero delle loro proprietà, anche di quelle possedute precedentemente al 1939”. Quella situazione colpì profondamente Mussolini che in una lettera inviata a Hitler dopo aver protestato perché i comandi militari tedeschi emanavano ordinanze a getto continuo in materie che interessavano la vita civile, scrisse che “l’antipatia per i tedeschi s’aggiungeva al discredito e all’ostilità” che il fascismo raccoglieva presso la grandissima maggioranza degli italiani, anche fra coloro che consideravano il re e Badoglio responsabili di aver portato nel fango l’onore dell’Italia e di averla abbandonata. Mussolini voleva portare il suo governo nel Trentino o, meglio ancora, a Merano o Bolzano.

Voleva riaffermare l’appartenenza all’Italia di quei territori, ma aveva capito che i tedeschi e Hofer in particolare, definivano la zona da Borghetto al Brennero come Südtirol. Scrive Renzo De Felice: “Appena conclusasi la guerra, già nel maggio 1945 Erich Amau, un altoatesino a suo tempo optante per la Germania, avrebbe subito costituito la Volkspartei. Secondo i servizi segreti italiani del tempo, tale iniziativa sarebbe stata ideata già dal Gauleiter Hofer in previsione di una conclusione del conflitto sfavorevole alla Germania”. In verità all’inizio degli anni Sessanta, qualche volta si era sentita, dalla voce di uomini legati ai servizi segreti che operavano a Bolzano, rimestare quella vicenda per dimostrare che i sud tirolesi erano sempre pronti a staccarsi dall’Italia.

(5. continua)

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