Storia

Gli ottant’anni della Portela: la speranza della pace infranta dal rombo dei cannoni

Dopo la firma dell’armistizio con gli Alleati, i tedeschi prendono il controllo gelando le aspettative sulla fine del conflitto
PRIMA PARTE La strage della Portela
SECONDA PARTE La guerra arriva dal cielo
TERZA PARTE Dopo le bombe l'armistizio
LA GALLERY Le immagini dopo il bombardamento

di Luigi Sardi

A Trento come a Bolzano, superata la prima sorpresa, che deve essere stata notevole, falliti i tentativi di mettersi in contatto a Roma con le “autorità superiori” perché dalla Capitale tutti, ma proprio tutti, erano scappati, le loro eccellenze furono d’accordo.

Se c’era stato l’armistizio, era certamente avvenuto con il consenso dei tedeschi. Poi arrivò la conferma. L’armistizio era stato firmato e tutti andarono a dormire nonostante le insistenze di Michele De Finis comandante dei Carabinieri Reali di Trento. Questo il clima dei vertici delle Forze Armate nell’ora della catastrofe. Le “voci” su cosa poteva accadere dopo l’8 settembre a Trento, certamente più tragiche che in altre città, erano state raccolte anche dall’ing. Guido de Unterrichter, uno dei fondatori della Democrazia Cristiana. Nessuno nel tardo pomeriggio di quella giornata, quando la radio diffuse l’annuncio, era in grado di sapere che quei tedeschi, scomparsi dal giorno prima, erano in agguato nei loro accampamenti.

Tutti erano convinti che la guerra fosse davvero finita e sulla tramvia che da Cles scende verso la valle dell’Adige, la gioia era palpabile. “La pace, c’è la pace!” gridava la gente nelle stazioncine di Mezzolombardo, Lavis, nelle vie di Gardolo - all’epoca la “vaca nonesa”, vera metropolitana di superficie, entrava proprio nel cuore sia di Lavis che di Gardolo - e in via del Suffragio dove il treno si fermava di fronte al breve sottoportico. Insomma una festa generale ma non fra i militari che con badili, picconi e carriole - nel 1943 come nel 1908 fra le macerie del terremoto di Messina -continuavano a scavare fra le macerie del rione della Portèla alla ricerca dei morti. Quella sera a Lavis, ma a Trento nessuno lo poteva sapere, i soldati germanici avevano disperso la gente che usciva dalla chiesa dopo una funzione religiosa. Sembrava volessero radunarsi a festeggiare la fine della guerra, ma vennero invitati e obbligati a rincasare.

Il bombardamento di Trento: la strage della Portela

Le foto sono tratte dal libro "I giorni della Portela e di San Martino" di Luigi Sardi (Temi)

Nessuno aveva paura, la guerra era finita, i tedeschi erano i camerati e i trentini che parlavano la loro lingua erano confortati: avrebbero continuato a combattere, ma lontano, giù in Calabria. Insomma, secondo il dettato de “Il Brennero” si doveva continuare a seguire “con simpatia” la guerra dei tedeschi e molti cominciavano a pensare che anche la Germania avrebbe chiesto la pace. La notte dell’8 settembre è stata raccontata dal giornalista Gian Pacher nel libro “Gli anni delle bombe: Trento conosce alcune ore di baldoria e l’eco rimbalza nei paesi dove già si trovano molti sfollati. E’ finita, si grida nei pochi caffè della città rimasti aperti. E si brinda alla pace. Nei paesi si improvvisano cortei di coscritti che cantano: e l’allegria la ven dai zoveni… Appena il tempo di mettersi a letto. Strade, piazze, vicoli sono vuoti. I tedeschi non aspettano altro”.

Solo fra Lavis e l’aeroporto di Gardolo c’era movimento. Ma di tedeschi armati. Invece nelle cinque caserme della città, fra i consueti squilli delle trombe, quelli per annunciare il rancio, la libera uscita, l’appello, il contrappello, il silenzio, le ronde si preparavano a dare il cambio ai commilitoni di guardia ai pubblici edifici, al palazzo delle poste, alla centrale idroelettrica della Busa, alla stazione ferroviaria, al traghetto che sulla sponda dell’Adige era in corso di allestimento un centinaio di braccia a nord dei rottami in ferro del ponte bombardato 6 giorni prima. Anche la zona delle macerie era sorvegliata da pattuglie di soldati. Nella città senza luci si sentivano, come ogni notte, solo i passi delle ronde in perlustrazione. Strade e piazze deserte per via del coprifuoco. Una pattuglia ferma un fornaio in bicicletta, l’uomo abitava in via Venezia e stava recandosi al lavoro. Tutto regolare.

La pattuglia rientra nella caserma di via Mattioli. Nulla da segnalare dall’ufficiale di picchetto, solo non si sono visti, alla stazione ferroviaria, i soldati tedeschi. E’ strano. Dalla fine d’agosto si erano installati attorno a cannoni contraerei nella zona dello scalo Filzi. Ma nessuno ci fa caso. Raccontava Gino Costa in una intervista rilasciata 40 anni fa al giornale “L’Adige”: “Nel pomeriggio del 5 settembre venivo chiamato quale responsabile dell’archivio cartografico, dal generale Carlo Filippi ispettore per l’artiglieria alpina del Corpo d’Armata. Lo trovai in ufficio con un maggiore tedesco accompagnato da un ufficiale e da un interprete. Mi venivano subito richieste le tavolette al 25.000 riferite alla città e dintorni; l’ufficiale tedesco proponeva la dislocazione di batterie da 88 per la difesa antiaerea di Trento. Vennero concordate località e quote ma solo dopo l’8 settembre seppi che la richiesta era stata un diversivo: le postazioni di artiglieria erano state dislocate ai margini della città in previsione dell’attacco alle nostre caserme. Il giorno dell’8 settembre, da mezzogiorno alla mezzanotte, all’ispettorato truppe alpine ero in servizio con il colonnello Cerutti, due graduati, un telefonista e quattro piantoni. Alle 21 giunse dal Ministero della Guerra un telegramma che mandai subito al colonnello. Mi venne restituito per il protocollo, lo lessi: si trattava solo di disposizioni per le licenze agricole!”.

Dunque, al Ministero della Guerra, in una delle notti fra le più drammatiche della Nazione, qualcuno si prese la briga di impartire disposizioni per le licenze dei soldati impegnati in lavori agresti. Continua Gino Costa: “Dunque, al Ministero della Guerra, in una delle notti più drammatiche della Nazione, qualcuno si prese la briga di impartire diposizioni per le licenze dei soldati impegnati nei lavori agricoli”. Continua Costa: “Mi recai all’osteria La Cisterna, vi trovai alcuni Alpini e con loro intonai un canto. Uscito poco dopo, fui avvicinato da un signore il quale, visto che avevo la tenuta di servizio, mi sussurrò di stare all’erta perché durante la notte si prevedevano novità. Inforcai la bicicletta e mi diressi a casa, abitavo a nord della città, dove ero autorizzato a pernottare. Non riuscivo a prendere sonno pensando allo strano avvertimento. All’ una e mezzo il passare di automezzi mi fece balzare dal letto e guardando tra le griglie delle imposte vidi, con stupore e paura, camionette cariche di tedeschi in assetto di guerra che provenendo da nord si dirigevano verso la città. Tornò un profondo silenzio, ma verso le due udii un nuovo rombo.

Era lo sferragliare dei cingoli dei carri armati Tigre. Poi nel cielo si alzarono numerosi razzi multicolori seguiti dal crepitio delle armi automatiche e dai colpi dei cannoni” L’operazione “Alarico” doveva cominciare con il lancio di razzi da segnalazione per mettere in movimento, alla stessa ora e su tutto il territorio italiano, anche il più piccolo distaccamento tedesco lasciando ogni ufficiale, ogni soldato del Regio Esercito di fronte ad un dilemma: quale sarebbe stata la giusta via da seguire? La resa, la resistenza oppure la fuga? Sua Maestà e Badoglio avevano già scelto: erano scappati. Nella redazione de “Il Brennero” si guarda l’orologio. Il tempo non passa, le lancette sembrano ferme, la mezzanotte è trascorsa da un pezzo, i telefoni sono muti. Anche il telegrafo tace. Nessun ticchettio anche la telescrivente. Strano, i telegrafisti non smettono quasi mai di battere l’indice e il medio sul tasto del trasmettitore. Si prova ancora con Roma. Niente. C’è nervosismo. Cosa stava accadendo?

“Fu il cannone a dare la risposta. Alcuni colpi, tiro rapido, le raffiche delle mitragliatrici pesanti mentre la notte è illuminata da razzi rossi. Poi altre cannonate dal centro della città. Si combatte, la guerra è qui, in casa, entro la cerchia delle nostre mura. A tratti le armi tacciono, poi riprendono, si ode anche il fragore delle bombe a mano. Le ore durano eterne. Giù nella strada si sentono passi cadenzati. I razzi illuminanti oscillano nel cielo, sembrano fermi, scendono lenti, si spengono in uno sfarfallio. Cessa anche il fracasso dei carri armati, il fragore delle bombe a mano. Anche i colpi di cannone sono stati pochi. Non ci fu intimazione di resa. Ad attaccare erano stati reparti ritirati dal fronte russo dopo aver tentato di liberare l’armata germanica assediata a Stalingrado.

Erano stati trasferiti prima in Austria, poi in Alto Adige e, riorganizzati e riarmati. Adesso erano pronti ad invadere l’Italia secondo il dettato del piano “Achse”, “asse”, e di quello più vasto e pronto fin dalla fine del 1941 con il barbarico nome di “Alarico”, il re dei Visigoti che saccheggiò Roma. I tedeschi spararono subito e 48 soldati italiani vennero uccisi. I primi a cadere furono i militari di guardia alla caserma di Corso degli Alpini, quel grande edificio che ha la facciata decorata con gli elmetti della Grande Guerra, falciati dalla mitraglia dei carri piombati dal vicino aeroporto di Gardolo. Forse furono loro i primi Caduti di quella che poi sarà la guerra di Resistenza. Carri armati, autoblindo e veicoli corazzati che si erano mossi da Lavis e dalla zona dell’aeroporto di Gardolo, piombarono davanti alle garitte delle sentinelle armate di moschetto. Scrive ancora Pacher: “I carri sfondano i recinti, la fanteria penetra nei varchi, i soldati sono sorpresi nelle camerate. La difesa delle caserme Madruzzo, del Distretto Militare, del Deposito del 321”. La guerra dopo quella piombata dal cielo, è nelle vie della città.

(4. continua)

comments powered by Disqus