Gli ottant’anni della Portela: gli italiani come schiavi

A Trento l’atmosfera è di angoscia, la gente rimasta in città non esce di casa. In città sono rimasti solo coloro che non sono nella possibilità di andarsene via
PRIMA PARTE La strage della Portela
SECONDA PARTE La guerra arriva dal cielo
TERZA PARTE Dopo le bombe l'armistizio
QUARTA PARTE La speranza di pace dura poco
QUINTA PARTE I tedeschi prendono il controllo
SESTA PARTE Un esercito in rotta
LA GALLERY Le immagini dopo il bombardamento

di Luigi Sardi

A Trento l’atmosfera è di angoscia, la gente rimasta in città non esce di casa, i servizi civili sono ridotti ad un filo, molti negozi sono chiusi e, si legge sempre su “Il Popolo Trentino” del 1948: “Il caos si moltiplica ogni giorno. In città sono rimasti solo coloro che non sono nella possibilità di andarsene via. La posta non funziona più, manca ogni collegamento telefonico e le linee telegrafiche sono sempre tagliate. Non si sa cosa accade nelle altre città, non si hanno notizie sull’andamento della guerra.

Anche i lavori di scavo fra le macerie della Portèla sono stati interrotti e completamente interrotto è anche il passaggio del fiume Adige perché sono spariti i soldati del Genio addetti al traghetto. Alla Portèla, a dare le ultime palate fra le macerie, sono stati gli Alpini. La città è invasa da un odore acre, che penetra ovunque, mefitico, nauseante. Effetto della decomposizione delle cose sepolte. In certe ore del pomeriggio Trento appare deserta. Solo al mattino e verso sera c’è un barlume di vita. Si temono nuove incursioni. Tutto è paralizzato, tutto è fermo. Siamo al 14 settembre. Sono impartite disposizioni per l’attività bancaria: sono autorizzati prelievi solo per importi fino a mille lire settimanali, la fatidica somma resa famosa dalla canzone che fa: Se potessi avere mille lire al mese”.

Il “bottino di guerra” fatto in Italia fu molto più ricco di quello fatto dai tedeschi in qualsiasi altro paese, Francia compresa. In qui giorni i tedeschi avevano prelevato come preda bellica e trasferito a Milano, in attesa di essere portata in Germania, la riserva aurea della Banca d’Italia. Invece che in Germania, quell’oro venne portato in Alto Adige, nelle gallerie corazzate di Franzensfeste dove nel maggio del 1945 venne recuperato dagli Alleati e riportato a Roma insieme a quei 33.443 chili d’oro che i tedeschi avevano portato in Germania nel 1944.

Ci sono nuove norme per l’oscuramento.

In ogni abitazione la luce deve restare spenta dall’imbrunire all’alba, non si possono accendere neanche le lampade a petrolio e a Trento i manifesti avvertivano che le pattuglie tedesche avrebbero sparato verso le finestre se vedevano filtrare una luce e sparato su chi, sorpreso dopo il coprifuoco, non si sarebbe fermato all’alt.

Gli appartenenti alle squadre dell’U.N.P.A. - sono uomini e donne della Unione Nazionale Protezione Antiaerea - “sono avvertiti che non rispondendo alle chiamate o non presentandosi in caso di allarme o di incursioni, saranno senz’ altro deferiti all’Autorità Giudiziaria”. Ma quasi tutti i volontari erano spariti. Dopo l’8 settembre temevano il trasferimento in Germania nei reparti nebbiogeni, quelli che al primo allarme dovevano aprire i bidoni grandi come fusti di benzina dove era compresso quel “fumo” nero, maleodorante, velenoso destinato a coprire le città durante le incursioni. Dall’ottobre del 1943 al maggio del 1945, 2942 “volontari” italiani vennero impiegati nei reparti nebbiogeni dislocati a Wilhelmshafen, Gotenhafen e Fedderwardergroden. Alcuni vennero impiegati anche a Berlino, ma di loro si è persa ogni traccia.

In Italia non si sapeva cosa stesse accadendo a Rodi, Cefalonia, in Provenza dove erano dislocati reparti del Regio Esercito che non si arresero ai tedeschi e in Germania si pensava cosa fare dei soldati italiani catturati nelle caserme. I primi a pensare concretamente agli italiani come forza lavoro da impiegare nell’economia di guerra tedesca furono quasi certamente gli uomini ai vertici dell’Oberkommando der Wehrmacht. Già il 16 settembre il generale Wilhelm von Keitel aveva diramato istruzioni al generale Albert Kesselring perché venisse catturato il maggior numero di sbandati, prima che si costituisse il nuovo governo di Mussolini.

Kesselring è il generale che a guerra finita inviterà gli italiani a costruirgli un monumento per aver convinto Hitler a non sterminare i traditori. Riceverà da Piero Calamandrei la famosa risposta con quell’ “Ora e sempre Resistenza” che è un inno di orgoglio e un giuramento sul quale si è fondata la nostra Repubblica.

I tedeschi erano convinti: mezzo milione di lavoratori italiani avrebbero permesso il disimpegno di centomila operai tedeschi per trasferirli dall’industria all’esercito. Dopo l’8 settembre, per i tedeschi l’unica cosa veramente importante era, dopo aver trasformato l’Italia in una trincea contro l’avanzata degli Alleati da sud, trasferire in Germania uomini, materiali e mezzi per sostenere lo sforzo bellico.

I lavoratori che aderirono alla Rsi (la repubblica sociale italiana) che furono pochi, ricevettero lo status di liberi lavoratori. Mussolini voleva rimarcare la differenza fra il suo rapporto con gli alleati tedeschi e quello del governo Badoglio con gli anglo-americani che, anche dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia alla Germania, non aveva rilasciato i prigionieri italiani e poiché nei Lager germanici erano rinchiusi più di 800 mila soldati e potendo calcolare in otto milioni i familiari, i parenti, gli amici in trepida attesa, il ritorno a casa sarebbe stato un successo per il nuovo regime mussoliniano.

Ma i tedeschi erano affamati di manovalanza a buon mercato, e i lavoratori stranieri erano trattati come schiavi, non avevano alcuna intenzione di rinunciare all’immenso esercito di prigionieri che formava l’armata del lavoro in Germania più nell’agricoltura che nell’industria, più nello sgombero delle macerie che nelle fabbriche di carri armati.

Italiani come schiavi, costretti a lavorare duramente. Ecco la storia di Adolfo Tolotti da Flavon raccontata per il giornale “l’Adige” il 23 gennaio 2013 da Guido Smadelli. Il 26 agosto 1943 l’Alpino Tolotti, classe 1924, viene chiamato al servizio di leva e inviato a Brunico. Solo 13 giorni di caserma, il tempo di vestire la divisa e viene fatto prigioniero. “A Innsbruck alloggiavamo in baracche della prima guerra mondiale, impiegate dal 1915 al 5 novembre del 1918 per i prigionieri di guerra italiani. Eravamo in 5 o 6 mila italiani e sulle nostre divise era stata stampigliata la sigla IMI, Italienische Militar Internierte; un pasto al giorno, rape e patate. Poi a Linz, al campo 25. Sveglia alle 4 del mattino, un quarto di pagnotta di segala e un mestolo di caffè d’orzo senza zucchero. Poi a lavorare, a scavare rifugi antiaerei. Per pranzo rape o carote; a cena una minestra. Acqua tiepida con tracce di foglie di cavolo”.

Anche dopo l’incontro di Hitler e Mussolini a Rastenburg, l’atteggiamento tedesco non cambiò e se mutò, lo fu in peggio, anche se formalmente l’Italia venne trattata da paese alleato e non occupato. Si può ricordare la decisione di Hitler presa il 30 settembre del 1943: i militari italiani non si dovevano più definire prigionieri di guerra ma internati militari italiani e che la carica del generale Rudolf Toussaint cambiò da comandante militare dell’Alta Italia in plenipotenziario della Wehrmacht presso il governo fascista italiano. Un cambiamento d’attribuzione, non certo di funzione.

A lato del campo degli italiani, ma separato da reticolati percorsi dalla corrente elettrica, un campo dove ci sono ebrei. Sono per lo più ragazzi di 13 o 14 anni. Di loro non si saprà nulla. Ricordava Tolotti: “Scarichiamo cemento tutto il giorno, sotto la pioggia o la neve. Un’estate poi un altro inverno. E’ il Natale del 1944, lavoriamo tutto il giorno, Alle 10 rientriamo nel lager e ci ordinano di tornare a lavorare. Il mattino dopo sono così stanco e disperato che voglio buttarmi nel fiume, un mio commilitone mi convince a non farlo”. Poi il trasferimento a Budapest investita dai russi. “Lavoriamo con piccone e badile per scavare trincee anticarro”. Adolfo Tolotti tornerà a casa nel giugno del 1945 mentre il paese festeggia il Sacro Cuore. “Arrivai a piedi, i miei compaesani mi riconoscono, mi corrono incontro. E’ una festa, il giorno più bello della mia vita”.

(7. continua)

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