Animali / Il caso

«Semplicistico pensare che basti ridurre il numero di orsi, servono ricerca e altri dispositivi»

Parla l'esperto Alberto Stoffella, ex forestale che fin dagli esordi lavorò al progetto Life Ursus: «Per me il numero alto non è direttamente collegato a più incidenti: non lo si può dire, finché non c’è uno studio puntuale. C’è, oggi, piuttosto, un problema di consanguineità, perché il ricambio genetico è basso. Anche l’aggressività ha a che fare con i processi di selezione»

CALDES «Qui ormai da anni abbiamo paura dell'orso»
FUGATTI L'orso che ha ucciso e gli altri 3 problematici saranno abbattuti
L'AGGRESSIONE Andrea attaccato durante la discesa da malga Grum

PROGETTO Ora la Provincia intende dimezzare il numero di orsi

di Domenico Sartori

TRENTO. «Troppo semplice, dire che basta ridurne il numero perché sono troppi. Il numero degli orsi è un fattore, ma non è l’unico da prendere in considerazione. In questi anni, non è mancata solo l’informazione. Non si è fatta ricerca, che è indispensabile per gestire il progetto di conservazione in Trentino e non inseguire i problemi».

Alberto Stoffella non è un genetista, un biologo o zoologo. Niente titoli accademici. Ma conosce come nessuno l’orso, cui da agente forestale della Provincia ha dedicato quasi trent’anni di vita, lavorando nel settore grandi carnivori: catture, interventi di emergenza, allevamento di cani anti-orso, contatti all’estero con i più grandi esperti nella gestione.

Da poco più di un anno è andato in pensione, e anche nel suo maso di Spormaggiore, balcone sulla valle dello Sporeggio e sul Brenta, il plantigrado si è fatto vivo. «Sì, ho avuto paura, come tutti» dice oggi. Inutile chiedergli un giudizio sulla tragedia di Caldes. «Questo è il momento della reazione emotiva, della rabbia non arginabile. Aspettiamo l’esito degli esami» premette prudente.

Stoffella, com’è cominciata l’ “avventura” professionale con l’orso?

«A metà anni Novanta, prima dell’avvio del progetto Life Ursus, fu creato il Gruppo operativo orso, di cui sono stato l’ultimo coordinatore. Lo scopo era monitorare gli ultimi esemplari rimasti. Il Piano del Parco Adamello Brenta, firmato da Wolfgang Schröder, aveva un’appendice in cui si parlava di reintroduzione dell’orso. Il mio dirigente al Servizio foreste era Mario Pedrolli: fui il primo ad essere mandato in Slovenia per capire come lì gestivano e catturavano gli orsi, e poi relazionare».

Poi, a fine anni ’90 decollò il progetto Life Ursus, con il primo arrivo dalla Slovenia, del maschio Masun...

«Sì, a sbloccare il progetto fu lo studio di fattibilità dell’allora Infs (oggi Ispra, ndr), l’Istituto nazionale della fauna selvatica, con Piero Genovesi. Lo studio indicò che buona parte del territorio del Trentino era in grado di ospitare orsi, ma pure che potevano essere messi in conto incidenti».

E il “Gruppo orso” fu sciolto...

«Sì. Io venni incaricato della sicurezza, dei rilasci, in attività di supporto al monitoraggio con la radiotelemetria: non c’erano i satelliti, allora... Minimo un mese, H24, con localizzazione ogni due ore. In seguito, furono create le squadre di cattura e di emergenza».

Quando ci furono i primi problemi...

«Sì, le incursioni di Daniza tra i tavoli dei ristoranti a Riva del Garda e l’escursione di Gasper sul Doss Trento e a Piedicastello. La Provincia, giunta Dellai, decise di togliere il ruolo di capofila del progetto al Parco Adamello Brenta e di prenderlo in carico direttamente. Dopo il caso Gasper (maggio 2002, ndr), vollero bloccare tutto, ma l’ultima orsa era già in viaggio dalla Slovenia».

Fino al 2014, aggressioni alle persone non ce ne sono state. Poi, qualcosa è cambiato. C’è stato un problema di organizzazione e gestione del progetto?

«Io sono stato un semplice esecutore. Ho partecipato alle squadre di emergenza, due persone in turno settimanale. A mio avviso, ciò che è mancata è l’attività puntuale di ricerca per affrontare ogni situazione, come si fa all’estero».

Ad esempio?

«La valutazione seria dell’efficacia della dissuasione: i pallettoni di gomma, sparati con il fucile a pompa, non hanno un grande effetto dissuasivo. E così l’uso dei cani anti-orso, che io ho promosso: vanno usati in coppia, per funzionare... E non bastano le squadre di emergenza».

Altrove come funziona?

«Negli Stati Uniti, usano tanto i cani e stressano l’orso. Lo catturano, lo tengono nella trappola a tubo. Ma quando lo liberano, ci sono 3-4 cani che lo inseguono. E sono all’opera 7-8 agenti. Un’azione forte, con maggior valore dissuasivo».

In Slovenia, in Romania, come si interviene?

«Si spara. Se c’è una situazione di pericolo, anche la polizia è autorizzata ad eliminare l’animale».

Qui, ora, il verbo è: sono troppi...

«Ma il numero non è il primo problema. In Canada e in Alaska, territori di estensioni enormi, la densità di popolazione di orsi è minore che in Trentino. Ma non ci sono meno incidenti. Idem in Scandinavia».

Ma qui sono troppi perché concentrati in 30 mila km2 i maschi e in poco più di 2 mila le femmine...

«La densità è più alta anche per la qualità del territorio. Ma per me il numero alto non è direttamente collegato a più incidenti: non lo si può dire, finché non c’è uno studio puntuale. C’è, oggi, piuttosto, un problema di consanguineità, perché il ricambio genetico è basso. Si è detto che servono 40-60 soggetti per garantire l’Mvp, il minimum viable population. Non sono un genetista. Ma derivano tutti da Masun, Jose e Gasper, e ciò può essere un problema.

Anche l’aggressività ha a che fare con i processi di selezione. Per questo è importante fare ricerche specifiche. Capire perché un orso diventa aggressivo dopo 18 anni, come MJ5 in val di Rabbi. Nel primo periodo, non abbiamo avuto infanticidi. Ma negli ultimi dieci anni il numero di cuccioli uccisi è diventato significativo. Le femmine, che tutelano i piccoli dai maschi adulti, sono più aggressive. La maggiore aggressività dipende dall’aumento della competizione tra i maschi».

Quindi serve studiare di più, prima di decidere di limitare il numero?

«A mio avviso, sì. Se c’è un aumento di falsi attacchi, mi pare semplicistico dire: sono troppi! E va studiata la proporzione tra maschi e femmine. Molti maschi si sono allontanati dal Trentino, in Austria, Alto Adige, in Piemonte... Come mai lì non ci sono state aggressioni? Fare ricerche puntuali, aumentando il numero delle catture, serve ad arginare prima i problemi».

La volontà della Provincia di dimezzarne il numero, allora?

«Dico ok, si può decidere di contenere il numero di orsi. Ma la domanda è: quali “prelevare”, cioè abbattere? Il rischio è di eliminare quelli meno aggressivi. Anche una scelta di questo tipo va supportata da una ricerca puntuale. Esattamente come si fa per il controllo degli ungulati. Ci sono casi di orsi uccisi da altri orsi: un sub-adulto ucciso da un altro adulto. Ciò farebbe pensare che ci sia una forte competizione. Non ragioniamo solo in termini di numeri, per dare un futuro al progetto di conservazione e per trovare un nuovo equilibrio con le comunità e i residenti».

Quand’è che ha avuto paura?

«L’anno scorso, in giugno. L’orso si è preso una pecora, al maso. È venuto due notti di seguito. Ho sensori di allarme dappertutto. E dopo una settimana l’ho incrociato a 300 metri da casa e mi ha inseguito per un tratto. Un falso attacco. Ma non è stato piacevole».

Lei è d’accordo sull’uso dello spray anti-orso?

«Sì, al 100 per cento. Purché sia testato. Negli Stati Uniti, ha risolto il 92% delle aggressioni. Nell’8% no, perché la bomboletta non era a portata di mano, ma nello zaino. In Svezia, l’orso ha ucciso anche cacciatori armati. Lo spray è più efficace del fucile. Irrora fino a 10-12 metri...».

Il ministero lo vieta...

«Ma è una garanzia, non solo psicologica. Lo si dovrebbe vendere dietro presentazione di un documento di identità. Certo, può essere usato per altri scopi. Ma una rapina uno la fa anche con il fucile da caccia o il coltello da cucina. Abusivamente, molti che frequentano boschi già lo usano».

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