Giustizia / Processi

Poliziotto pedofilo condannato, via la divisa, ma lui si difende e fa ricorso: «Non ero in servizio»

Il fatto nel Trentino meridionale, è costato la destituzione all’agente, che però ha fatto ricorso al Tar contro il provvedimento della PS. Ma la radiazione è stata confermata anche al Consiglio di Stato

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ROVERETO. Atti sessuali con un minorenne. Questo il reato per il quale un (ora ex) poliziotto era stato condannato ad un anno dal tribunale di Rovereto, condanna confermata anche in appello e diventata definitiva. Assieme all'anno di reclusione i giudici avevano deciso anche per la pena accessoria della interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinente alla tutela, alla curatela e all'amministrazione di sostegno, nonché all'interdizione perpetua da qualunque incarico nelle scuole nonché da ogni ufficio o servizio in istituzioni o in altre strutture pubbliche frequentate prevalentemente da minori.

Per il condannato c'è stata anche una conseguenza lavorativa: indossava la divisa della polizia e quella divisa l'ha dovuta abbandonare perché - quando la condanna è diventata definitiva - il capo della polizia gli aveva inflitto la sanzione disciplinare della destituzione. Decisione presa al termine di un procedimento disciplinare.

Decisione che l'uomo - che non vive più nel basso Trentino - ha deciso di impugnare. E lo ha fatto presentando ricorso al Tar. Per i giudici amministrativi però «la sanzione inflitta era proporzionata vista la gravità della condotta accertata in sede penale, irrilevanti o comunque non determinati per una diversa sanzione i pur buoni precedenti disciplinari del ricorrente ed il fatto che la vicenda non riguardasse un comportamento in servizio».

L'ex poliziotto ha fatto ricorso al Consiglio di Stato sostenendo che fosse «inammissibile appiattimento del giudizio disciplinare su quello penale, rilevando che in tal modo non sarebbero state apprezzate alcune circostanze determinanti per il provvedimento disciplinare, come quella che per i fatti contestati non vi sarebbe stato abuso dell'autorità di un appartenente alla Polizia di Stato derivante dalla funzione esercitata nei confronti della persona offesa. Ugualmente non sarebbe stato valutato lo stato di servizio dell'agente, né il mancato coinvolgimento dell'amministrazione nei fatti contestati. Neppure si sarebbe tenuto conto della scelta del rito abbreviato finalizzata a non coinvolgere l'amministrazione».

Il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso sottolineando come «l'amministrazione, nell'esercizio del proprio potere disciplinare, può e deve utilizzare gli indizi di colpevolezza raccolti al fine di esercitare in giudizio l'azione penale, sicché non sussiste l'obbligo di svolgere una particolare e diversa attività istruttoria al fine di acquisire ulteriori mezzi di prova». E ancora «non vi è prova che il suo stato di servizio non sia stato considerato, ma esso, anche se buono, non determina da solo l'irrilevanza disciplinare degli accertati fatti contestati; ed è irrilevante la circostanza che i fatti accertati in sede penale non siano avvenuti in servizio».

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