Animali / L’esperto

Va in pensione Alberto Stoffella, uno dei “papà” dei plantigradi: «Con orsi e lupi convivenza possibile»

Dagli orsetti curati al recupero della fauna selvatica: “Un privilegio occuparmi dei grandi carnivori. Serve cultura, fa paura solo quello che non conosciamo”

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di Flavia Pedrini

PAGANELLA. Portarsi il lavoro a casa, nell'immaginario, rimanda a pile di scartoffie o serate trascorse davanti al computer. Nel caso di Alberto Stoffella, invece, significava nutrire un cucciolo di capriolo nel suo maso di Spormaggiore o curare uno scoiattolo. Un'attività di volontariato, «complementare», come la definisce lui, a quella di guardia forestale della Provincia, che ha svolto fino al 1° gennaio, quando è andato in pensione. Declinazioni diverse di un'unica passione: per la natura e gli animali. Grandi carnivori compresi.

Da oltre trent'anni Stoffella si occupa di orsi. Li ha studiati e monitorati, macinando chilometri in macchina, quando non c'erano i radiocollari satellitari e a piedi, nei boschi del Brenta. Ha lavorato nella squadra di emergenza e in quella di cattura.

È stato tra i promotori del progetto Life Ursus, per il ripopolamento dei plantigradi sulle Alpi: «Sì, sono uno dei colpevoli», scherza. Schivo per natura, ai riflettori preferisce il silenzio del bosco, ma dal suo osservatorio privilegiato parla di orsi e lupi e di come una convivenza sia possibile: «Ma servono cultura e conoscenza».

Stoffella, lei è considerato uno dei "papà " degli orsi.

«Ho avuto il privilegio di occuparmi di grandi carnivori e sono stato tra i promotori del progetto. A volte si identifica una persona con un lavoro, ma non è mai così. Ho studiato scienze biologiche, ma il mio desiderio era occuparmi di fauna. Ho iniziato come guardiacaccia, poi ittico venatorio e infine sono diventato forestale. All'inizio degli anni Novanta, sono stato l'ultimo coordinatore di un gruppo di volontari che monitorava la popolazione rimanente e tramite il primo piano faunistico creato dal Parco è nata l'idea, stimolata dal professor Schroeder, di riportare la popolazione degli orsi ad un livello vitale. Tra tanti altri progetti partiti quasi simultaneamente, il vero trionfo è stato solo di quello trentino. Un successo, che ora tanti vedono come un danno e che invece dovrebbe essere motivo di orgoglio. E voglio ricordare che, con coraggio, capofila fu il Parco Adamello Brenta».

Adesso si contano 100 esemplari. Molti dicono che siano troppi in un territorio fortemente antropizzato. Resta convinto che la convivenza sia possibile?

«Sono convintissimo che la convivenza sia possibile, ma questo dipende dal popolo. Dobbiamo decidere quanta natura siamo disposti ancora ad accettare. Si definiscono tutti ecologisti e protezionisti, finché fa comodo. Ma quando c'è una minima interferenza l'opinione cambia. Il problema è culturale. Non servono regole e imposizioni: è la cultura a salvare tutto. Fa paura quello che non si conosce. È come uscire senza ombrello quando piove: ci si bagna. Ho girato Alaska, Canada, Stati Uniti, spinto dalla passione per lupi, orsi. Oggi posso osservarli qui: è quasi un miracolo godere di questa biodiversità».

Anche la convivenza con i lupi si gioca su un terreno culturale?

«Assolutamente. Il fatto che una specie ricolonizzi un'area è significativo. Invece qui si raduna il comitato di sicurezza».

Gli esemplari di orsi problematici, però, ci sono. Per questo aveva proposto i cani anti orso.

«Sì, i primi due sono arrivati nel 2007. L'orso è infastidito dal cane e dunque se ne va».

Nei casi estremi, l'abbattimento può essere una soluzione?

«Non è un tabù. Le decisioni vanno prese su un piano tecnico. Senza farsi influenzare dalle "tifoserie". Facciamo prelievi su tutto il resto della fauna. E le scelte vanno fatte ricordando che la natura è pericolosa. Torno al tema della conoscenza e, dunque, della prudenza. Se entri in un territorio popolato da orsi e hai un atteggiamento corretto, sono pressoché certo che non succede niente».

Lei ha accudito due cuccioli di orso. Che esperienza è stata?

«La prima mi è "caduta" addosso. Mi chiamò il dirigente, sapendo che, in maniera complementare, senza un incarico, mi sono sempre occupato di fauna da recuperare. Erano le 20.30, non mi ero mai occupato di orsi, ma cercai indicazioni e riuscii a farcela. La seconda volta una ragazza di Molveno mi disse che c'era un orsetto davanti al garage. Era stremato. In quel caso stetti ancora più attento al pericolo imprinting. Prima l'orso ha paura, poi diventa aggressivo, facendo falsi attacchi. Infine vuole interagire, fa le capriole. Ma non bisogna cedere. Io non ho mai usato la voce e limitato i contatti. Quando ha recuperato, lo abbiamo liberato».

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