Tribunale / La sentenza

Al lavoro con il foulard sulla testa in una ditta di Trento nord, licenziata: il giudice del lavoro le dà ragione

La donna, assistita dall'avvocata Sonia Guglielminetti, ora è tornata al suo lavoro, nella ditta che l'aveva assunta come operaia nel 2003 e che deve pagarle anche un'indennità risarcitoria

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di Marica Vigano'

TRENTO. Licenziata perché portava un foulard al capo. Rimossa dalle sue mansioni, presso una ditta di Trento nord, a causa di un capo di abbigliamento che, per il datore di lavoro, sarebbe vietato dalle procedure di sicurezza. La donna non ha intenzione di starsene a casa. Nata in Nordafrica, da vent'anni lavora come operaia e continuerà a farlo, nonostante le abbiano messo i bastoni fra le ruote.

Per la questione del foulard c'è stata una ordinanza del giudice Giorgio Flaim di annullamento del licenziamento, un ricorso dell'azienda e una sentenza di primo grado che è stata confermata anche in secondo grado: il licenziamento non è stato un atto ritorsivo, ma va annullato perché la condotta della dipendente è punibile solo con una sanzione. Un mese dopo il reintegro in azienda la donna è stata nuovamente lasciata a casa, ma anche in questo caso il giudice del lavoro ha annullato il licenziamento, con conferma in Appello, riconoscendo questa volta che si è trattato di una ritorsione.

La donna, assistita dall'avvocata Sonia Guglielminetti, ora è tornata al suo lavoro, nella ditta che l'aveva assunta come operaia nel 2003 e che deve pagarle anche un'indennità risarcitoria. Nella tesi dell'azienda, era stata licenziata la prima volta «per giusta causa», per «contravvenzione alle regole di sicurezza ed insubordinazione»: in più di una occasione non avrebbe rispettato le regole della ditta che vietano di indossare indumenti ed accessori che possono impigliarsi nei macchinari, nei nastri trasportatori o nei rulli o intralciare le lavorazioni (come braccialetti, catenine, sciarpe, ma anche maniche ampie o polsini).

Per la donna invece tale licenziamento sarebbe stato ritorsivo in quanto lei aveva rivendicato il diritto di tenere il capo coperto, come altri colleghi, ad esempio i fedeli sikh che indossano il turbante. Il mancato rispetto della procedura era avvenuto in tre distinte occasioni, in giornate successive e durante lo svolgimento di tre diverse lavorazioni.

Per il giudice del lavoro Giorgio Flaim, la recidiva è stata correttamente contestata dal datore di lavoro, in quanto la donna era stata avvertita già la prima volta in merito alla violazione delle procedure di sicurezza. Tuttavia, il giudice evidenzia che nelle norme di prevenzione interne all'azienda non è menzionato alcun accessorio assimilabile a un foulard: vengono invece specificati altri indumenti, «ossia "maniche della tuta o polsini" che, evidentemente, sono a stretto contatto con le mani, e "sciarpe", che, altrettanto evidentemente, si distaccano dal corpo in misura notevolmente maggiore di un normale "foulard portato attorno al capo"».

La donna aveva fornito documentazione fotografica rispetto a come era solita indossare il foulard: legato sotto il mento, dunque senza il rischio che potesse cadere sulle spalle o sul petto. Era stata inoltre accusata dal datore di lavoro di avere un atteggiamento di «sfida all'autorità aziendale», per «l'assoluto spregio delle regole di comportamento vigenti in azienda, ivi comprese le norme in materia di sicurezza, e degli ordini impartiti dei superiori gerarchici». Tuttavia per il giudice «non è ravvisabile un atteggiamento di sfida e disprezzo».

Come accertato, il foulard indossato in quel modo non sarebbe stato rischioso: in un caso la donna lavorava accanto a piccoli rulli, ma era su una pedana e con testa a distanza dal macchinario; nel secondo episodio contestato il nastro trasportatore era ad un'altezza modesta; nell'ultimo caso invece nella postazione non ci sarebbero stati né rulli, né tappeti.

«È vero che la ricorrente si è sottratta al potere direttivo esercitato dal superiore» e non si è tolta il foulard, spiega il giudice Flaim, ma trattandosi di un'interpretazione della norma di sicurezza ciò «poteva suscitare nella lavoratrice legittimamente delle perplessità». Viene comunque evidenziato che la condotta della dipendente non è stata del tutto corretta: il suo atteggiamento (non eseguiva il lavoro secondo le istruzioni ricevute) integra un illecito disciplinare punibile con una sanzione, come da contratto nazionale collettivo del lavoro.

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