Scienza / La frontiera

A Povo c’è Ari, l'umanoide venuta a imparare come si lavora in ospedale

E’ un robot, e al  Disi, il dipartimento di ingegneria e scienza dell'informazione dell'Ateneo, dovrà apprendere tante cose come ci si muove in corsia, come riconoscere i farmaci, come aiutare un anziano… e anche a sorridere
VIDEO Com'è fatta e cosa saprà fare

di Domenico Sartori

TRENTO. Ha passato bene la prima notte a Povo, Ari? «Sì, penso di sì» sorride Elisa Ricci.

Ari non è un medico, né un'infermiera o una Oss. Né ha l'ambizione di diventarlo. Ari è un umanoide, un robot sociale, il cui destino è segnato: finire all'Hôpital Broca di Parigi, clinica specializzata nella riabilitazione degli anziani. Ari ti saluta, strizza gli occhi, ti dà la mano. Ari è come un bambino che muove i primi passi. E a Povo, partirà ora, per lei, perché Ari è una "femmina", un lungo tirocinio "educativo".

Dovrà perfezionare la sua capacità di muoversi nell'ambiente. Dovrà migliorare le sue competenze linguistiche. Ma dovrà pure imparare - e a noi umani pare già una sfida impossibile - a cogliere le emozioni, interpretare un sorriso, condividere una preoccupazione.Il percorso di "socializzazione primaria" è affidato al team guidato da Elisa Ricci, al lavoro nei laboratori del Disi, il dipartimento di ingegneria e scienza dell'informazione dell'Ateneo.

Ari è approdata l'altra sera a Povo in arrivo da Barcellona dove una startup, la Pal Robotics, l'ha fatta nascere. Ricci viene da Perugia (master in ingegneria elettronica), si è perfezionata in Inghilterra e in Svizzera. Oggi ha una doppia affiliazione: è ricercatrice di Fbk, dove dirige la Unit Deep Visual Learning, ed è professoressa associata al Disi. Con il suo team ha il compito di programmare Ari per renderla in grado di svolgere al meglio le mansioni di assistenza agli anziani. Un lavoro che durerà quattro anni.

Professoressa Ricci, cosa farete esattamente con Ari?

«Quello con Ari è un progetto di ricerca internazionale molto ambizioso, che coinvolge più enti e realtà e di cui Trento è la fase finale. Vi sono tre step. Il primo riguarda il muoversi in un ambiente complesso».

Ad esempio?

«Ari dovrà essere capace di muoversi in un ambiente affollato, come la corsia di un ospedale. La difficoltà tecnica, sviluppando algoritmi di localizzazione robotica di nuova generazione, è far sì che sia in grado di affrontare l'imprevisto, tra la gente che parla e chi le passerà all'improvviso davanti».

E il secondo step?

«È quello del linguaggio. Ari dovrà imparare a rispondere alle domande, di un paziente anziano o di un medico, nel modo più naturale possibile. Esempio: Ari, prendimi quel medicinale... Associare un pronome ad un oggetto o ad una persona è molto difficile. Maneggiare frasi complesse e contestualizzare semanticamente una scena, integrando il suo linguaggio con le molte telecamere di cui è dotata: questo insegneremo ad Ari».

Umanoidi sociali, quindi, dal doppio obiettivo: aiutare sia l'utenza, in questo caso anziani, sia gli operatori sanitari?

«Sì, un beneficio per entrambi. Si consideri che la pandemia ha cambiato la percezione sui robot, oggi molto più utilizzati per agevolare la interazione tra medico e paziente nel rispetto delle distanze. Ovviamente non si tratta di sostituire il medico o l'infermiere. Ma è realistico programmare Ari per camminare, ad esempio, a fianco di un anziano che fa riabilitazione».

Ari, oltre che strizzare l'occhio-led, imparerà a sorridere?

«È il terzo step, quello per cui entriamo in campo noi del Disi: migliorare la componente affettiva».

Un umanoide che prova sentimenti: si fa una gran fatica solo a immaginarlo.

«Ma è il nostro obiettivo: programmare un robot che sappia interpretare lo stato emotivo delle persone che ha davanti. Che sappia capire se uno sorride o meno. È grazie all'intelligenza artificiale, sviluppata in modo responsabile, che potremo arrivarci. Con responsabilità: algoritmi certificati che tutelano privacy ed identità dei pazienti».

Oggi, i robot li troviamo negli aeroporti, nei musei, negli uffici. Qui però c'è un grande problema di accettazione sociale, non crede?

«Sì, e per questa ragione il team di ricerca è integrato da figure come psicologi ed esperti in scienze cognitive. Le prime ricerche dimostrano che, dopo la pandemia, i pazienti sono molto più disponibili di prima ad essere assistiti da un robot».

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