Morto per il caldo in fabbrica Marangoni, si va a processo

di Chiara Zomer

Il colpo di teatro è arrivato nel corso dell’udienza preliminare, che vedeva imputati Gianni Marangoni e il medico del lavoro Marco Fabbri. Per entrambi l’accusa - pur con profili diversi - è di omicidio colposo, per la morte di Carmine Minichino, l’operaio ucciso, secondo la procura, dal troppo caldo in fabbrica. Ieri l’annuncio: l’assicurazione di Marangoni Spa verserà 65 mila euro per ognuno dei due figli e 10 mila euro per ognuno dei due fratelli. 150 mila euro in tutto, che non si avvicinano nemmeno alle richieste, ma che sono il primo segnale d’apertura dell’azienda.

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Non è sufficiente per escludere dal procedimento la parte civile (che ha annunciato di accettare l’eventuale somma a titolo di acconto) e difficilmente il gesto avrà un tornaconto processuale, viste le cifre in campo. È un modo per non chiamasi fuori, pur senza riconoscere responsabilità, di un’azienda che deve difendere anche la propria immagine, davanti ad un morto in fabbrica, che ha  lasciato due figli senza padre, di cui uno minorenne.

Quanto all’azienda Marangoni, non è cominciata benissimo. Rigettata l’eccezione della difesa, che richiedeva l’esclusione come responsabile civile dell’azienda. Il che vuol dire che sarà Marangoni Spa a pagare, in caso di eventuale condanna. Di più. L’azienda compare nel procedimento anche per l’accertamento della responsabilità penale delle persone giuridiche. Qualcosa più di un cavillo, per la verità: il rischio ovviamente non può essere la galera, ma sono le potenziali conseguenze pecuniarie.

Fin qui le schermaglie. Ma la sostanza è un’altra. Ed è capire se la morte di Carmine Minichino sia frutto di una tragica fatalità o se vi siano delle responsabilità. Per deciderlo, ha valutato ieri il Gup Monica Izzo, serve un processo pubblico. Si comincerà il 23 gennaio davanti al giudice Peluso.

L’ACCUSA

La procura (l’inchiesta è stata coordinata dal procuratore capo Aldo Celentano) non ha dubbi: Minichino si è sentito male il 22 luglio mentre lavorava nel reparto di vulcanizzazione. Portato al pronto soccorso, aveva la febbre a 42. Sarebbe morto di lì a poche ore per ipertermia, dalla prima diagnosi al pronto soccorso. La successiva consulenza di Dario Raniero l’avrebbe poi chiarito: il decesso è avvenuto per arresto cardiaco dovuto a shock da ipertermia.

L’Uopsal ha rilevato in reparto temperature elevate al punto da sanzionare l’azienda e prescrivere una serie di adempimenti. Per la procura, sintetizzando, là dentro si lavorava ad una temperatura «non adeguata all’organismo umano». Nel mirino degli inquirenti è l’organizzazione del lavoro, senza sufficienti pause in un locale refrigerato. Per questo è imputato il legale rappresentante dell’azienda, Gianni Marangoni. Ma siccome il consulente della procura ritiene non esclusa l’ipotesi di un malore, quindi di una pregressa cardiopatia, che abbia fatto svenire Minichino impedendogli di capire che il caldo era eccessivo per il suo fisico, è sul banco degli imputati anche il medico del lavoro, Marco Fabbri.

PARTI CIVILI

Si sono costituiti i due figli (di cui uno minore) e i due fratelli, con l’avvocato Giovanni Guarini, che hanno quantificato il danno in oltre un milione di euro. E che hanno depositato una consulenza a firma del professor Gaetano Thiene, che ha escluso eventuali cardiopatie in Minichino. Tre dettagli a dimostrarlo: non era in arresto quando è arrivato al pronto soccorso, la visita cardiologica effettuata pochi mesi prima era negativa e non risultano cardiopatie ne segni che le accompagnano nell’autopsia. Parte civile si è costituito anche il sindacato Cobas.

DIFESA DELL’AZIENDA

Marangoni, assistito dall’avvocato Andrea Tomasi, ha sempre rigettato ogni addebito: non si ritiene responsabile di quella che valuta come una tragica fatalità. Perché il caldo, quell’anno, era insopportabile. Perché l’acqua - si è ribadito - era a disposizione dei lavoratori. E perché non è escluso che Minichino sia stato tradito, prima di tutto, dalle sue condizioni di salute, di cui l’azienda era ignara.

LA DIFESA DEL MEDICO

Per il medico ha parlato, in aula, l’avvocato Roberto Bertuol. Che ha ribadito la sua linea: non c’è stata alcuna incuria da parte del medico, legata al rilascio dell’idoneità. E prima ancora di presentare la propria consulenza, ad avallare questa tesi è proprio la consulenza della parte civile, quando esclude qualsiasi forma di cardiopatia.

Dei molti addebiti a carico del medico, con cui è iniziata l’inchiesta, ne è rimasto in piedi allo stato attuale solo uno: non aver fatto la propria parte, come consulente dell’azienda, nel chiarire le condizioni di lavoro in caso di temperature elevate. Addebito rigettato dal professionista: le prescrizioni legate al caldo erano chiare, sia rispetto alle pause sia rispetto alla necessità di garantire acqua fresca ai lavoratori, nelle giornate particolarmente torride.

Erano pure state scritte, da un suo collega che seguiva l’azienda prima di lui, e a cui lui si era richiamato.

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