Morti d'amianto ma nessuno ha colpa Assolti gli amministratori Rheem Radi

Di amianto si muore e, prima degli accorgimenti salvavita sui posti di lavoro, l’esposizione era tollerata dalla normativa vigente. Quella che, assieme alla difficoltà ad attribuire colpe personali (e i reati, per il codice penale, sono tutti «personali»), ha portato all’assoluzione di tutti gli imprenditori che tra gli anni Settanta e Novanta hanno trasformato Rovereto in una città industriale.

Un merito, quello di aver portato fabbriche e lavoro in Vallagarina, ma che a causa di un sistema ormai superato ha seminato anche dolore. Malattie professionali, certo, ma per i tribunali non attribuibili agli industriali accusati di omicidio colposo.

Dopo due casi che hanno «ballato» nelle aule di giustizia per oltre tre anni, la Cassazione ha rimandato indietro il terzo fascicolo, quello che riguarda l’assoluzione dei tredici amministratori delegati che, nel tempo, si sono avvicendati alla guida dell’Archifar, poi diventata Lepetit e infine Roferm fino al 1992.

Da lì in avanti il megastabilimento di Lizzana è passato a Biochemie e quindi Sandoz e la storia è decisamente cambiata in meglio.

Il caso in questione, come detto, è il terzo e viene dopo i due operai morti per mesotelioma e l’indagine della Procura nei confronti dei vertici della Rheem Radi. Prosciolti dal gup roveretano Riccardo Dies in udienza preliminare e poi assolti, dopo il dibattimento, dal giudice Carlo Ancona.

In mezzo, ovviamente, c’è stato il passaggio in Cassazione (con la sentenza del gup impugnata dalla Procura generale), una nuova udienza preliminare con il rinvio a giudizio degli imputati e infine, al pubblico processo con tanto di contraddittorio tra accusa e difesa, l’assoluzione.

Chi si aspettava un ulteriore, fondamentale a questo punto (visto che la Suprema corte, cassando il primo proscioglimento, contestava proprio il mancato dibattimento in carenza di una prova fortissima per prosciogliere gli imprenditori), passaggio romano è rimasto però a bocca asciutta.

Perché la Procura generale di Trento ha preferito chiudere il discorso, archiviando le morti per amianto come tali ma senza colpe di chicchessia. Certo, adesso partiranno le cause civili ma dal punto di vista penale le tante fedine penali che rischiavano macchie in questi anni sono rimaste pulite.

La relazione tra amianto, fabbriche lagarine e operai morti per mesotelioma sembra esserci stata per davvero. Per carità, manca ancora l’ultimo, ed ennesimo, ritorno dal gup Monica Izzo per i tredici amministratori Archifar e per il decesso di un lavoratore (avvenuto nel 2008 dopo soli due anni di pensione e 36 di catena) ma, di fatto, si tratta di casi fotocopia.

Insomma, tre inchieste diverse avviate dalla Procura ma con un finale uguale. Perché ha a che fare con fatti di decenni fa e i protagonisti alla sbarra sono già a ridosso del secolo di vita.

Per quelle tre morti sospette, però, la Procura di Rovereto si è davvero impegnata, ricostruendo il sistema fabbrica dell’epoca. In particolare le condizioni dentro l’allora Rheem Radi (due croci) e Archifar (una).

In tutti e tre i casi si tratta di persone che si sono ammalate e sono morte di mesotelioma pleurico, un particolare tipo di tumore strettamente legato all’inalazione di fibre di amianto. Gli operai, secondo i magistrati inquirenti, sono stati esposti all’asbesto in fabbrica.

Ma ad evitare condanne è intervenuto soprattutto il fatto che non sarebbe sufficientemente suffragata la teoria della «dose correlata», che renderebbe colpevoli tutti i responsabili dell’azienda nel corso degli anni, perché tutti avrebbero contribuito, in misura maggiore o minore, all’aumentare il pericolo di malattia per gli operai.

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