Villa Angerer, un luogo fatato

C’era una volta ad Arco, e c’è ancora, un luogo che assomiglia al giardino di un famoso romanzo per ragazzi, e che è rimasto, segreto quanto basta, per cinquant’anni in attesa di evocare una visione abbastanza folle da somigliare ad un ponte. Un ponte tra ciò che era, così romantico e struggente, e ciò che potrà essere, ancora romantico e struggente, ma collocato in un tempo nuovo.
Da bambina mi arrampicavo sul muro di cinta di quel luogo inaccessibile, e mi chiedevo cosa contenessero di prezioso e segreto il suo giardino, e alle spalle quella grande casa abbandonata.
Se ne poteva solo favoleggiare, giacché forse soltanto principi o semidei ne avevano percorso i viali e animato le stanze. Immaginavo la musica e poi i silenzi, l’altera immobilità di chiome centenarie, di cui scorgevo i contorni in sella al mio muro.
Era Villa Angerer, attualmente di proprietà della Provincia di Trento, nei bei tempi andati splendida dimora dell’omonimo notabile austriaco, poi per decenni luogo di cura di malati di tubercolosi, e di recente Luogo del Cuore FAI.
Se cambio il mio sguardo in quello di adulta che sono, dopo quasi quarant’anni, e guardo quel luogo pur trascurato e dolente, scopro che non ha cambiato forma. Al netto dell’evidente decadimento, è rimasto fatalmente bello, ammantato del fascino delle rovine nascoste, alto tra olivi di pace. Insomma, un posto solitario di poesie rilkiane, in quel clima di Palestina che fa di Arco uno scrigno mediterraneo a due passi dalle Alpi.
Dopo il suo abbandono definitivo Villa Angerer è rimasta per quasi cinquant’anni così, poggiata su fondamenta anche metaforicamente incerte, in un ambiente dal formidabile potenziale espressivo.
Come moltissime sfide della modernità - urbanistica, ma non solo - chiede idee, soldi (inutile negarlo) e strumenti adatti per tornare a far parte del vissuto della comunità di cui faceva parte, in particolare nella sua ultima vita, quella dedicata all’accoglienza e alla cura.
Ma il ponte che avevo immaginato per traghettare a ciò che sarà, sembra portare lontano dai miei sogni, guidato più dalla logica omologante del profitto, che dalle suggestioni del ripristino paesaggistico.
Qualcuno dirà suvvia, stiamo parlando di una vecchia villa che le amministrazioni pubbliche avvieranno ad un nuovo destino urbanistico, che c’entra coi sogni di bambina e con le sfide della modernità? Ecco, a quelli che se lo chiederanno propongo di riflettere su una parola: Visione.
Visione è qualcosa che resta in alto, mentre le logiche di profitto trascinano giù, nel freddo delle scritture contabili. Visione è respiro d’anima, genius loci, che distingue un “posto”, uguale ad altri, fatto di convenienze ben organizzate, da un “luogo”, dove si respirano significati e evocazioni. Visione è saper rinunciare al “recupero” se ha il sapore della perdita e dello sfruttamento, laddove si può seminare memoria, educazione, rispetto per la Natura.
Ai comitati cittadini insorti contro l’ipotesi di albergo cinque stelle che potrebbe nascere dopo la demolizione di Villa Angerer, è stato assicurato che la nuova lussuosa realizzazione dovrà avere la stessa facciata in stile romantico della dimora che è stata. Purtroppo a questi amministratori sfugge che Villa Angerer è anche un simbolo. Il Vissuto e la Memoria che si legano ai luoghi simbolo non si riproducono col copia incolla di facciate.
Agli stessi amministratori sembra non importare che quei raddoppiati volumi di cemento, che inghiottiranno una gran parte del parco secolare, non restituiranno nemmeno un frammento dell’eleganza e della pervasiva cultura mitteleuropea che ancora, e nonostante l’incuria, si sprigiona da quella costruzione. E non sembra importare che la delicata poesia del paesaggio arcense, più che di monadi pentastellate, aliene, ha bisogno di azioni di ripristino e di valorizzazione ben collocate nel “sentire comune”.
Forse chi vive la quotidianità normale del portare i figli a scuola, del recarsi al lavoro, del passeggio pomeridiano, del respirare a pieni polmoni non solo l’aria sana, ma anche l’aria gentile dei paesaggi, poco sa del turismo internazionale e dei grandi tour-operator. Poco sa dove si deve fermare la logica del profitto per lasciare il passo a quella della tipicità, del garbo e della naturalezza accogliente.
Quello che forse non sanno gli amministratori è che l’incanto del loro sguardo bambino è morto troppo presto e che il mio, se il ponte resta quello che si intravvede, rischia di subire un duro colpo.

(Raffaella Prandi - lettera al giornale)

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