La tragedia / L’intervista

Marmolada, da domenica venti psicologi accanto ai parenti delle vittime e dei dispersi

Ma anche, se e quando serve, per i soccorritori, chiamati su quel ghiaccio, tra quei sassi e quelle rocce, a cercare tutto quel che si può portare a casa, in condizioni spesso difficili, quando non rischiose

ALPINISTA Il messaggio del grande scalatore valdostano Hervé Barmasse

TRENTO. Sono una ventina, hanno ruotato da domenica pomeriggio e resteranno lassù finché servirà. Professionisti allenati anche alle emergenze. Nella catastrofe che è il crollo in Marmolada, gli psicologi per i popoli sono la spalla a cui appoggiarsi. Per i famigliari delle vittime e dei dispersi, prima di tutto. Ma anche, se e quando serve, per i soccorritori, chiamati su quel ghiaccio, tra quei sassi e quelle rocce, a cercare tutto quel che si può portare a casa, in condizioni spesso difficili, quando non rischiose.
Per dare risposte a famiglie in attesa, sospese. Non mai facile, in una situazione come la tragedia della Marmolada, il loro lavoro è anche più difficile. «Ma siamo addestrati, c'è un protocollo, è necessaria una preparazione specifica per fare psicologia dell'emergenza» spiega Adriana Mania, membra dell'associazione, che in questi giorni ha avuto un ruolo di coordinamento tra psicologi, forze dell'ordine macchina dei soccorsi.
Quanti siete e che sostegno portate a Canazei?
«Da domenica ad oggi, circa 20 persone. Siamo lì per supportare sia le forze dell'ordine che i soccorritori, nel sostegno e nella gestione dei famigliari delle persone coinvolte».
La notizia, ai familiari, la danno sempre le forze dell'ordine?
«Sì, certo. E quando lo richiedono noi siamo presenti».
In una tragedia di queste dimensioni, come di fa a essere vicini ai familiari.
«Quello che garantiamo è un supporto emotivo e psicologico, che in questi casi significa soprattutto garantire la presenza, a volte è già importante avere qualcuno che si mette in posizione di ascolto. Spesso in casi come questi, tante cose da dire sono vane o sono percepite come tali. È più importante la nostra presenza, nell'accompagnarli in questa situazione di grandissimo impatto emotivo».
C'è un protocollo di intervento?
«C'è, naturalmente, perché vanno riconosciuti i passaggi, shock, negazione, rabbia, ansia, ma in realtà ognuno è diverso, quindi ci adattiamo alla circostanza».
Cos'è l'aspetto più difficile, per i familiari? Sapere che un loro caro è morto, o avere la notizia che potrebbero non avere certezze mai, perché magari il loro familiare potrebbe restare per sempre nell'elenco dei dispersi?
«Purtroppo, oggettivamente, visti gli ultimi dati, per qualcuno potrebbe essere un rischio. Tutti si stano prodigando perché non accada, ma certo questo è l'aspetto più difficile. Il nostro compito è non dare false speranze. Queste famiglie vivono sospese. Per loro è più difficile».
Elaborare il lutto è più complicato.
«Esatto. Quando c'è un corpo c'è un processo mentale, c'è il distacco, il saluto. Se non c'è, possono subentrare anche altri pensieri, speranze, negazione. Facile immaginarlo, siamo esseri umani».
Per loro, vivere la tragedia assieme ad altre persone fa la differenza? Aiuta?
«In generale, ci si sente accomunati, talvolta ci si sente capiti. È la dinamica che scatta nei gruppi di auto mutuo aiuto. Ma è molto soggettivo».
Cosa aiuta di più, in casi come questo, i familiari delle vittime?
«La protezione di loro e della loro privacy, il rispetto dei loro tempi. Non sempre è necessario parlare, va bene anche il silenzio a volte. Un silenzio rispettoso, in un momento in cui si sentono esposti. Anche le notizie, a volte non li aiutano. Serve rispetto e serve che si sentano ascoltati».
Voi siete a disposizione anche dei soccorritori. Immaginiamo che in un caso come questo, di grande impatto, soprattutto per chi è intervenuto nelle prime ore, sia particolarmente necessaria la vostra presenza.
«In generale, i soccorritori sono abituati, nel momento dell'intervento, a seguire le procedure, a focalizzarsi sull'obiettivo, sui passaggi da fare. Non hanno nemmeno il tempo di pensare. È quando ci si ferma, che si realizza. E si ha la necessità di prendere tempo e prendersi cura di sé. Chi prima, chi dopo, succede».
Sempre, ma in casi come questi è peggio?
«Questo è soggettivo. Non dipende dal carattere, nemmeno dall'esperienza né dalle reazioni che si sono avute in passato. La reazione è soggettiva e non prevedibile. L'impatto cambia di volta in volta».
E per voi? Come ci si scherma dal contatto con il dolore?
«Noi non lavoriamo con procedure meccaniche, ma con le persone. Pur abituati al contesto d'emergenza, è chiaro che stare a contatto con il dolore, con la sospensione, anche se siamo capaci di gestirlo, a volte colpisce di più. Ma siamo preparati e siamo un bel gruppo. Ci si prende cura ognuno degli altri».

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