Ambiente / Incubo

Sloi, la fabbrica dei veleni che Trento ha dimenticato: il piombo è ancora lì, la memoria di tanti lutti e pericoli

L’Adige vi offre da oggi un reportage a puntate. La prima: che cos’era la Sloi, e qual’è stata la sua storia, costellata di nubi tossiche, operai impazziti e coperture politiche

IL NODO  Le aree Sloi e Carbochimica, un problema irrisolto
LA RICHIESTA "Una pausa di riflessione per valutare ipotesi alternative"

di Gigi Zoppello e Luigi Sardi

TRENTO. L’area della ex fabbrica di piombo tetraetile Sloi di Trento (fra via Maccani e via Brennero) è cruciale per il progetto di circonvallazione ferroviaria Tav di Trento, che dovrebbe partire fra pochi mesi. Ma la bonifica dei terreni è una faccenda complessa: non si è mai trovato un sistema sicuro e sperimentato. Ed oggi che tutti chiedono la «bonifica integrale», siamo ancora al palo.

L’Adige vi offre da oggi un reportage a puntate. La prima: che cos’era la Sloi, e qual’è stata la sua storia, costellata di nubi tossiche, operai impazziti e coperture politiche. 

PRIMA PUNTATA: LA FABBRICA DELLA MORTE

Sloi, la “fabbrica della morte” che con i suoi veleni minaccia la città

Da oltre 80 anni la Sloi, la fabbrica di piombo tetraetile voluta a Trento dal fascismo, minaccia la città con il suo profilo sinistro. E, soprattutto, con i suoi veleni. Gigi Zoppello ne ricostruisce la storia con questa videoinchiesta a puntate.

 

C’è, nella memoria ormai remota, un luogo di lavoro che è stato un Calvario. E una data, quella del 14 luglio del 1978 che rischiò di passare nella storia come il giorno che poteva segnare l’annientamento dell’intera popolazione di Trento. Da oltre mezzo secolo sappiamo che la Sloi ha avvelenato la città, ucciso un numero di operai che mai potrà essere precisato e ridotto molti altri a fantasmi malati o impazziti.

Tutto comincio nel 1939, XVII dell’Era Fascista, l’anno delle Opzioni, quel tragico accordo fra l’Italia fascista e la Germania nazista che obbligava i sudtirolesi a scegliere se restare in Italia oppure trasferisti oltre il Brennero, quando si decise di costruire nella zona di Campo Trentino quello stabilimento che produceva il piombo tetraetile, l’antidetonante della benzina, e dove si cominciava la ricerca attorno alla benzina sintetica.

Era l’anno del massimo entusiasmo per il Patto d’Acciaio, l’alleanza fra Benito Mussolini, Adolf Hitler e il Giappone, il famoso “Roberto”, acronimo di “Roma-Berlino-Tokio”. Nella Cancelleria del Reich si preparava la guerra; a Roma si pensò che quell’industria davvero strategica doveva sorgere più vicina al territorio del Reich e lontana dal confine francese, a ridosso di una linea ferroviaria importante come lo era – e lo è ancora – la ferrovia del Brennero. E dell’aeroporto di Gardolo perché il connubio aerei-benzina era, ovviamente, fondamentale per lo sforzo bellico.

Achille Starace il sergente di ferro del fascismo scelse Trento, la “città redenta” e dove nel Ventidue si erano fatte le prove della marcia su Roma. Si scelse appunto Campo Trentino, un luogo all’epoca distante dalla città, in una zona dominata da un vento costante, e l’Ora del Garda era perfetta per disperdere verso zone pochissimo abitate i fumi che si sapevano velenosi.

Si scelse il terreno dove oggi corre via Maccani, a ridosso della ferrovia e sulla sponda del Rio egli Armanelli perché alla fabbrica serviva l’acqua ed un corso d’acqua dove scaricare i rifiuti. Da ricordare che nel 1968 Enrico Pruner, il leader del Partito Popolare Trentino Tirolese, fotografò due operai della Sloi che, muniti di stivaloni e maschere antigas rimescolavano fuori dal perimetro dello stabilimento le acque del rio piene di fanghiglia tossica.

Già nel 1941, in piena guerra e nel momento di massima produzione del piombo tetraetile indispensabile per la benzina avio, si scoprì che nella zona i bachi da seta, i conigli, i pulcini morivano quasi di colpo. Cadevano i fiori dei meli e dei peschi e l’insalata - Campo Trentino era l’orto della città - si «accartocciava». Già nel 1942 il Tribunale di Trento condannò la Sloi a risarcire i contadini che si erano riuniti in consorzio.

Era la prima volta che un tribunale condannava uno stabilimento, per giunta essenziale per lo sforzo bellico. Evidentemente c’era, oltre a quello celebre di Berlino, un giudice anche a Trento. Negli atti giudiziari si legge che «un lotto di cavie tenuto nel reparto dove lavorano gli operai presentava, poche ore dopo, una diminuzione della vista e un arruffamento del pelo, tremiti, eccitazione motoria, movimenti a trottola, convulsioni» mentre l’Inail stabiliva che il 50 per cento degli operai presentava malattie professionali non meglio indicate nelle tavole giudiziarie. Sentenza finita negli archivi con l’ 8 Settembre del 1943 quando dal Brennero calarono i tedeschi in armi per occupare l’Italia.

La Sloi venne chiusa il 18 luglio del 1978 dopo il terribile incendio della fabbrica, per decisione del Sindaco Giorgio Tononi che precedette l’intervento della Procura della Repubblica e rabbuiò taluni uomini della politica perché all’improvviso si trovarono di fronte ad una massa di disoccupati che sotto la casa del capo della procura – era Mario Agostini – protestavano con violenza per la chiusura. Ma quella notte solo il lungimirante intervento dei Vigili del Fuoco di Trento e del loro comandante ingegner Salvati evitò una strage inaudita: Salvati capì che non si poteva usare l’acqua, e fece requisire le autobotti di cemento all’Italcementi, per domare le fiamme con la polvere.

Sono passatati 45 anni, ma quella bomba ecologica innescata e sepolta sotto i terreni di Trento Nord «che non possiamo consegnare a nostri figli» come disse Lorenzo Dellai il giorno dopo – era il giugno del 1990 – del suo insediamento a Palazzo Thun, è ancora lì. Minacciosa. Pericolosa. Anche se dalla fine degli anni Novanta c’è un progetto per bonificare i terreni redatto dall’allora capo della Protezione Civile, l’ingegner Nicola Salvati.

La Sloi minacciò Trento quel venerdì 14 luglio del 1978. Era una giornata afosa e ricordo quell’unica nuvola di color piombo allargarsi dalla Paganella alla città e alle 20, di colpo, via Belenzani e Piazza Duomo erano state spazzate da un’improvvisa, violentissima raffica di vento che proveniva da Nord, da quella nuvola che solcata da fasci di fulmini oscurava il cielo. Poi, grandine e pioggia fredda, violenta.

Alla Sloi e in un capannone dove in fusti metallici erano accatastati 200 o 300 quintali di sodio, l’acqua era ruscellata dal tetto su un fusto incrinato da un colpo di piccone ed era entrata in contatto con il sodio innescando una reazione violentissima. I libri elementari di chimica spiegano che il sodio è un metallo tenero come la cera, che si taglia con un coltello e viene conservato sotto petrolio in bidoni sigillati. A contatto con l’acqua sprigiona idrossido di sodio comunemente noto come soda caustica. Per essere più chiari: a contatto dell’acqua, si infiamma.

Gli operai erano accorsi per circoscrivere l’incendio, ma i barili avevano cominciato a scoppiare uno dopo l’altro schizzando sodio fuso a distanza di molti metri mentre una nube acre, soffocante, irritante che faceva lacrimare e sembrava ti soffocasse investiva il rione di Cristo Re coprendo anche la zona di via Soprassasso.

Si mossero i vigili del fuoco. Dal racconto di Valentino Graif di Tassullo, 25 anni, il più giovane della squadra di prima partenza composta dal sette uomini: «Era impressionate. Noi andavano in su verso la Sloi e la gente scappava in giù verso il centro città sotto un temporale che faceva paura. Siamo entrati nella fabbrica e abbiamo viso il deposito dei fusti che bruciava. Abbiamo affrontato le fiamme con i getti di polvere degli estintori carrellati. Non c’era niente da fare, e quando il sodio è uscito all’esterno, nelle caditoie e nelle pozze d’acqua create dal pioggia, le fiamme facevano paura. C’era il pericolo di esplosioni, c’era il rischio che l’incendio si estendesse ai depositi del piombo tetraetile creando una nube tossica».

Dal libri “Sloi fabbrica dei veleni” e “Sloi incubo nella città” stampati nell’ autunno del 1974: «Di fronte al sodio che colava incandescente c’era il pericolo che l’incendio si propagasse ad un altro deposito dove, sospesi a delle “bilance” e circondati da “camicie” piene di olio caldo c’erano altri depositi contenenti ciascuno 25 metri cubi di sodio. Si sarebbe potuta innescare una terribile reazione a catena, le fiamme avrebbe potuto dilagare, raggiungere i reattori dove si mescolavano piombo, sodio e altri prodotti, soprattutto i depositi di materiale finito quelli che contenevano i fusti, colmi di una sostanza altamente volatile. Ricordiamo che il piombo tetraetile, il “PT”, crea un gas 30 volte più micidiale di quello usato con risultati devastanti, dagli austro germanici a Caporetto nell’ottobre del 1917».

Intanto la nube di fumo e vapori che a tratti si tingeva di rosa e di blu diventata gigantesca, sovrastava Campo Trentino, Gardolo, Roncafort, Martignano, il rione di Cristo Re; l’incendio aveva raggiunto i 1200 gradi e negli uffici della Questura erano state messe in preallarme le volanti in attesa di un ordine angoscioso: quello che avrebbe ordinato lo sgombero in piena notte di molti rioni della città e la fuga nel buio di miglia di persone sarebbe stata un disastro nel disastro.

Centinaia di persone erano nelle strade, si coprivano la bocca con fazzoletti bagnati. A mezzanotte l’ingegnere Salvati prese la decisone vincente. Requisite a Piedicastello, sul piazzale dell’Italcementi, due autobotti che trasportavano 540 quintali di cemento in polvere, vennero pilotate il più vicino possibile al rogo e mentre la polvere di cemento veniva lanciata sulle fiamme queste si attenuano: si allontanava il pericolo del crollo del capannone, quello della reazione a catena e dell’incendio dei fusti di piombo tetraetile. E passò anche la paura.

Ricordo Bruno Kessler che non si mosse mai dal fronte dell’incendio – Tononi, il Sindaco di Trento, stava tornando precipitosamente dal mare dove era in ferie e ad ogni stazione di servizio si fermava per telefonare, i telefoni erano a gettoni, a Palazzo Thun per essere informato mentre migliaia di persone erano incollate alla radio a transistor per seguire la puntuale cronaca di una radio privata – prendere una decisione: rivolgersi ai medici del posto di pronto soccorso del Santa Chiara per valutare il pericolo rappresento dalla nube di soda caustica.

Si era capito che la nube portava solo – si fa per dire – irritazione alle mucose, fastidio agli occhi, lacrimazione, senso di soffocamento. Erano davvero momenti molto convulsi e quella valutazione presa in fretta, riferita a voce ad un funzionario delle Questura che portava a tracolla una maschera antigas, aveva evitato l’ ordine di sgombero della città. «Meglio non pensarci» aveva detto nella notte il dottor Silvio Belli, sovrintendente sanitario. «Che rischio. Che paura» disse un chimico che nel laboratorio di via Piave aveva esaminato in tutta fretta campioni dell’aria.

Poi le fiamme vennero spente e il giorno dopo l’ingegnere capo della Provincia Vittorio Armani poteva dichiarare:«Abbiamo passato un momento di percolo per la pubblica incolumità».

Il giorno dopo il titolo a nove colonne della prima pagina del giornale “Alto Adige” intitolava «Nube tossica sulla città – per alcune ore si è prospetta la necessità di sgomberare alcuni rioni».

Dichiarò l’ing. Salvati: «Quando arrivai davanti all’incendio, mi dissi che per fortuna portavo al dito la fede con incisa la data del mio matrimonio. Almeno con quella mi avrebbero potuto identificare».

Le fotografie di Claudio Libera e di Nereo Pederzolli mostrano una palla di fuoco nei buio della notte lasciò un brivido: poteva essere l’ultima immagine di una città che rischiò di diventare in una manciata di secondi un enorme cimitero.

Appena arrivato a Trento all’alba di sabato, il sindaco Giorgio Tononi convocò i capigruppo di tutti i partiti e venne ordinata l’immediata chiusura dello stabilimento e sul giornale “l’Adige” Antonino Vischi scrisse: «La decisione del Sindaco non fa una grinza», accusando la Sloi di aver avvelenato la città e la politica dell’epoca di non essersi accorta di quanto stava accadendo.

Martedì 18 luglio, con il sequestro per ordine della Procura della Repubblica, i giornali “Alto Adige“ e “l’Adige” intitolavano congiuntamente: «Dopo 38 anni di inquinamento - la Sloi deve chiudere».

Scriverà il giudice istruttore Antonino Crea rinviando a giudizio quanti vennero indicati come responsabili della lunga stagione dei veleni: «Presso la Sloi, sullo sfondo della plumbea atmosfera, fanno da lugubre contrappunto, come in un’incisione dell’Inferno dantesco del Dorè, le centina di intossicati, le decine di invalidi, i morti, le loro vedove».

Cominciava la lunga stagione che avrebbe dovuto portare – ma non è accaduto proprio nulla – a disintossicare i terreni di Trento Nord. Nonostante tavole rotonde, tavole imbandite, convegni, dibattiti, vertici politici, infiniti dibattiti.

La storia del piombo tetraetile resta viva anche grazie al film documentario SLOI, la fabbrica degli invisibili di Katia Bernardi e Luca Bergamaschi, pellicola presentata al Trentino Film Festival del 2009..

E grazie a due notevoli lavori teatrali: “La notte della Sloi” del giornalista Gigi Zoppello, scritta in occasione dell’occupazione simbolica della ex fabbrica da parte del Laboratorio sul Moderno e messa in scena fra i ruderi, e “Sloi machine” di Andrea Brunello, rappresentata più e più volte in tutto il Trentino.

Il ricordo della fabbrica della morte e l’elegia operaia di Brunello portata in un teatro Sociale colmo di pubblico commosso, ma disertato dalle autorità dell’epoca, si riaffaccia ora. Perché in quei terreni dovrà passare la futura super ferrovia destinata a congiungere il Mare del Nord con il Mediterraneo.

Lì ci sono ancora tonnellate di veleni. E

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