Il caso / L’intervista

Ginecologa scomparsa, l’appello della sorella: “Chi sa abbia coraggio e parli. Sistema da risanare”

Emanuela Pedri ripercorre tutta la vicenda: “Mi diceva che era un inferno e tante persone che ho sentito hanno confermato”

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di Matteo Lunelli

TRENTO. Una donna coraggiosa. La sorella di Sara Pedri è una donna che non molla. Che vuole capire, che lotta per capire, che vuole abbattere quello che considera un muro di omertà.

«Io vorrei che Sara diventasse un pretesto: chi sa ne approfitti e parli. So che non è facile, lo capisco, ma io voglio andare fino in fondo. Vivo con il rimpianto di non aver capito prima la situazione, ma voglio combattere perché Sara come persona venga rispettata e per aiutare ragazze che potrebbero essere in difficoltà come lo è stata mia sorella». Lei, la sorella maggiore, si chiama Emanuela (nella foto con la mamma). E tutti gli aggettivi che usa per Sara potrebbero essere perfetti anche per lei: tenace, testona, coraggiosa.

Proviamo a ripercorrere alcune tappe: sua sorella arriva in Trentino. Dopo la laurea e la specializzazione ha vinto un bando. Lei è una ragazza autonoma e indipendente, di fatto da tanti anni viveva da sola e lontana dalla famiglia. Avrebbe potuto andare a lavorare a Ravenna, a pochi chilometri da casa nostra a Forlì, e scegliere una soluzione di comodo. Invece ha scelto il Trentino. E in pochi mesi la situazione è precipitata: usava termini come incubo e terrore, si è involuta totalmente, da una specializzanda tra le migliori a una dottoressa impaurita. Le dicevano che era incapace, eppure aveva sempre avuto il massimo dei voti.

Perché ha scelto Cles?

Perché amava le sfide. La scintilla risponde alla sigla PMA, ovvero Procreazione medicalmente assistita. L'aveva fatta a Catanzaro, era brava e si era innamorata di quella specialità. Quando è stata assunta a Cles lei e il direttore dell'Unità operativa di ostetricia e ginecologia si erano accordati perché di tanto in tanto potesse andare ad Arco a fare appunto la PMA. Da Cles, complice il Covid, viene mandata al Santa Chiara di Trento.

E si trova subito in difficoltà?

No, diciamo che fino a dicembre va bene. Poi iniziano i problemi: viene mortificata, le urlano, le dicono che è inadeguata. E Sara da guerriera si trasforma in ragazza che sussurra. Inizia a dimagrire, non mangia e non dorme.

Ma chi vi racconta della situazione difficile?

Prima è Sara, che sentivo quotidianamente. Ma poi tutto mi viene confermato dalle tante persone con le quali ho parlato dalla sua scomparsa. Perché non bisogna mai generalizzare: se di alcune persone non si fidava, tante altre me le descriveva come carine e gentili, sul lavoro e fuori. Sara amava il suo lavoro, stava dieci o dodici ore in reparto e, siccome aveva preso casa a Cles, ogni giorno andava avanti e indietro. Mi dicono che ci vogliono 40 minuti: d'inverno e con la neve andava ogni giorno a Trento.

 

Poi Sara torna a casa, a fine febbraio.

Non voleva venire, voleva lavorare. Ma l'ho convinta. E l'ho convinta ad andare subito dal medico. "Calo ponderale per stress da lavoro" ha scritto nel certificato. Io avrei voluto almeno un mese di malattia, ma Sara voleva lavorare. Si era ammalata, era la sindrome da burnout. Si incolpava e si vergognava di quello che accadeva al lavoro.

Da Forlì torna in Trentino e si dimette.

Lei è stata a casa dal 19 al 28 febbraio. E in quei giorni la chiamavano sempre i suoi responsabili, sia di Cles sia di Trento. Dopo aver visto il certificato di malattia. Viene rimandata a Cles e lo vive come un ennesimo fallimento. Decide di dimettersi e lo fa da sola, non qui a casa davanti a noi. Torna in Trentino e poi scompare. Dal 4 marzo scorso non abbiamo notizie.

L'Azienda sanitaria si è fatta viva con voi? Una chiamata o una lettera per esprimere umana vicinanza?

No, non abbiamo mai sentito nessuno. Una parola di conforto ce la saremmo aspettata.

In queste settimane lei ha parlato con tante persone, attualmente o in passato nel reparto di Ginecologia. Sì, molte. Per capire e ricostruire.

Noi i pezzi li abbiamo messi in fila qualche settimana dopo la scomparsa, prima non ho saputo essere abbastanza lucida. Vorrei chiarire: io non sono qui a cercare un colpevole: sarebbe comodo e facile cercare un colpevole. Io sono qui per tentare di risanare un sistema che non funziona. Vorrei parlare alla coscienza delle persone che hanno lavorato con Sara e a quelle che sono passate da situazioni simili in quel reparto, invitandole ad avere il coraggio di esprimersi, senza temere ritorsioni o minacce. Lo devo a mia sorella. Lo devo al fatto che fossi così orgogliosa di lei.

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