La maestra Maria Pina Mori racconta l'esperienza preziosa della piccola scuola in ospedale

di Giorgio Lacchin

«Ho ricevuto più di quanto abbia dato».
Bello sentirglielo dire.
«E se tornassi indietro, agli anni in cui non insegnavo in ospedale ma nella scuola "classica", agirei in un altro modo. Insegnerei diversamente».
Maria Pina Mori ha la voce serena, un tono pacato, una spontaneità che ispira fiducia. Lei insegna alla scuola "in ospedale", al Santa Chiara. Questa scuola minuscola, eppure così preziosa, è inclusa nell'Istituto comprensivo Trento 4.
Sembra di capire, signora Mori, che questa esperienza le stia dando moltissimo.
«Gliel'ho detto. Più di quanto io stessa abbia dato, perché in ospedale è tutta un'altra scuola».
Un altro mondo.
«I bimbi sono pochi. Si lavora viso a viso con ciascuno di loro».
S'instaura un altro tipo di relazione.
«Il nostro compito, qui più che altrove, è valorizzare il tempo di ciascun bambino. Per farlo partiamo dalle loro necessità in quel preciso momento. In generale sono ragazzini in attesa di un intervento chirurgico, e sono ansiosi. Ma grazie a noi riescono a superare quel tempo incerto».
Voi riuscite a valorizzare l'attesa.
«Ecco, sì».
Se potesse tornare indietro nel tempo, agli anni dell'insegnamento nella scuola "classica", cosa vorrebbe cambiare?
«Imposterei la didattica in maniera completamente diversa. Il bambino dev'essere al centro di tutto».
Dovrebbe essere sempre così...
«Okay, ma in ospedale lo fai concretamente».
Da quanto tempo insegna in ospedale?
«È il quinto anno».
Scusi, quanti anni ha?
«Sessanta, e 39 di servizio. Sono di Trento e prima insegnavo alla scuola dei Solteri. L'ho fatto per 19 anni».
Esperienze agli antipodi.
«Lo può ben dire».
Lei è l'unica maestra?
«Siamo in due. La mia collega è Paola Belli e in questo momento insegniamo a 6 bambini: due in pediatria e quattro in chirurgia. Invece per i più grandi c'è la professoressa Francesca Boldrin».
L'emergenza Covid vi condizionerà pesantemente.
«Purtroppo. Quest'anno dobbiamo lavorare con un bimbo alla volta, nella sua stanza, invece prima della pandemia avevamo la nostra auletta e i bambini stavano insieme».
Peccato.
«Comunque riusciamo a cavarcela. Con noi i bambini fanno i compiti, svolgono qualche attività laboratoriale come il modellare la creta; adesso, naturalmente, molti laboratori sono saltati. Pratichiamo l'educazione civica e alla cittadinanza, proponiamo la lettura di un libro, la scrittura di un testo. Un disegno, se sono più piccoli».
Ma i bambini eseguono i compiti "veri"?
«Proprio quelli assegnati dalle loro maestre. E se un bambino deve restare in ospedale per molto tempo ci mettiamo in contatto con la sua scuola. Un'altra cosa: noi cerchiamo di legare l'attività ai periodi dell'anno e ai progetti del territorio. Abbiamo vinto alcuni concorsi del Comune, come "Tutti in slitta verso il Natale", nel 2019, e partecipiamo alla Festa della pace».
Quante sono le ore di scuola?
«Fino all'anno scorso sia io che la maestra Belli avevamo la cattedra "piena": 22 ore alla settimana, a testa. Mattina e pomeriggio. Quest'anno per colpa del virus siamo scesi a 9 ore a testa, distribuite su quattro pomeriggi».
In questi cinque anni alla scuola in ospedale avrà vissuto momenti particolari. Avrà sofferto, magari.
«Ho riflettuto molto, direi, più che sofferto. I bambini sono unici, attraversano un'età speciale. Ho capito che dobbiamo dedicarci completamente a loro».
Cosa la rende felice?
«Il vedere un bambino entrare con un'aria perplessa nell'auletta, poi mettersi in gioco, lavorare e infine uscire contento. Vedesse come sono entusiasti! Ecco, questo mi riempie di gioia. Mi ripaga di tutto».

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