Stallo di Bersani  e il suicidio del Pd

Se Pierluigi Bersani, come tuttora sta facendo, crede di risolvere tutto puntando su un nuovo presidente che gli ridia l'incarico (quasi che Napolitano fosse il cattivo, e la colpa del fallimento delle esplorazioni fosse del Quirinale), allora il Pd segnerà l'ultimo atto di questa tragica commedia. Di fronte all'elezione del successore di Napolitano il Pd può giocarsi l'ultima carta: promuovere un'intesa larga, non bilaterale (né con Grillo, o con il solo Berlusconi), ma ampia ed estesa a tutte le forze politicheI tuoi commenti

di Pierangelo Giovanetti

bersaniA 42 giorni di distanza dall'esito elettorale, l'Italia è senza governo, e soprattutto senza prospettiva di governo. Sei settimane sono state buttate al vento inutilmente per l'insipiente incapacità della politica di fare ciò che essa per sua natura è chiamata a fare: trattare per trovare una mediazione, una soluzione la più condivisa possibile ai problemi. Ciascuna delle tre principali minoranze del Paese, Pd Berlusconi e Grillo, persegue il proprio personale interesse, senza preoccuparsi delle conseguenze mostruose che tale impotenza della politica sta causando al Paese, paralizzando le istituzioni con veti reciproci.


Il Movimento 5Stelle, la novità imponente delle elezioni, si è chiuso in se stesso come una setta di càtari, a metà fra la Città del Sole di Campanella e la Comune di Parigi, presuntuosamente rifiutando qualunque contatto con il mondo per non «sporcarsi» in nome di una asserita purezza di cui si sono autoproclamati portatori. E come ogni setta si è chiuso nel proprio fondamentalismo sterile e inconcludente, autoconvincendosi si tratti di «splendido isolamento» quando in realtà è solo incapacità di cambiare le cose.


Silvio Berlusconi ha in mente la sua salvezza personale, patrimoniale e giudiziaria. Punta al salvacondotto, dimostrando però una fibra e una capacità fuori del comune, e un seguito popolare sempre fortissimo nonostante tutte le sue disavventure e i suoi ripetuti fallimenti. Questo fa di lui comunque un protagonista della politica italiana, che - al di là di come la si pensi - non può essere sottovalutato e ignorato.


Ben più grave, però, e gravida di conseguenze per sé e per il Paese, è l'ottusità folle con cui il Pd, impersonato dal segretario Pierluigi Bersani, si sta suicidando, portando nella sua autodistruzione l'Italia, le istituzioni, il governo, finanche la Presidenza della Repubblica, con Napolitano arrivato sul punto di dimettersi di fronte alla cieca testardaggine del partito dalla cui storia proviene e alla quale ha dedicato la vita intera.

 

Come spiegare altrimenti l'accanimento terapeutico con cui, dopo la sconfitta elettorale, da sei settimane Bersani cerca di portare avanti un impossibile governo di minoranza con se stesso a capo, prendendosi quotidianamente insulti e schiaffi in faccia da Grillo e dai suoi seguaci, ammaliato dall'illusione di strapparne qualche dissidente? Un vero leader, di un vero partito di governo e ossatura portante delle istituzioni democratiche e repubblicane in uno dei passaggi più cupi e drammatici per l'Italia dopo l'8 settembre 1943, fin dal giorno dopo le elezioni si sarebbe fatto da parte per dar modo alle forze politiche, tutte, di dar vita ad un governo nazionale.


Un CLN che salvi la patria e dia una guida - anche provvisoria - al Paese per metter mano alle riforme essenziali, a cominciare da quella elettorale, quella istituzionale del Senato e la riduzione dei parlamentari. Un governo capace di fare quello che i partiti e la politica non sono stati capaci di fare non solo nei due decenni precedenti, ma soprattutto nei tredici mesi di governo tecnico, quando avevano tutto il tempo per riformare le istituzioni, cambiare la legge elettorale e ridurre le spese della politica. Nulla hanno fatto, a cominciare dal Pd, se non ergersi a quotidiano contraltare delle scelte economiche di Monti e del suo governo, chiamato a evitare la bancarotta, invocando il ritorno della politica. E s'è visto, quando la politica è tornata, cosa è successo. E quanto ha saputo fare.

 

Perché oggi la paralisi dell'Italia è dovuta proprio alla drammatica crisi della politica, alla mancanza di politica, all'incapacità della politica di far fronte ai propri doveri elementari, che sono innanzitutto quello di guardare in faccia la realtà, e cercare insieme delle soluzioni possibili sulla base di questa realtà. A sei settimane dal voto il Partito democratico e il suo segretario non hanno ancora guardato in faccia alla realtà, non hanno ancora preso atto della pesantissima sconfitta. Non si sono ancora interrogati del perché non hanno preso un voto, dicasi uno, dei milioni di voti in libera uscita dopo il disastro del governo Berlusconi. Anzi, hanno perso più di tre milioni dei propri voti. Ma nessuno che si interroghi perché. Avanti ostinatamente verso il baratro, ripetendo come un mantra di essere i primi, rappresentando meno di un quinto degli italiani.


Questo è tanto più grave nel Pd, perché doveva essere una delle colonne portanti di un governo di tenuta democratica e di riforme istituzionali. La cocciuta stoltezza con cui si continua a perseguire l'illusione di fare un governo con solo se stessi, autoreferenziale, magari con qualche transfuga di complemento della pattuglia grillina, è segno della paurosa perdita di senno con cui la dirigenza del Pd sta sperperando tutta la sua credibilità, e indice dell'assenza di qualunque seria strategia e di qualunque prospettiva politica.

 

Come è possibile affidare il governo del Paese ad un partito, e ad un tale leader, quando non è in grado nemmeno di gestire la formazione di un governo e di indicare una prospettiva politica che non sia la paralisi? Se è vero che Dio acceca chi vuole perdere, Bersani e il Pd sono già persi, a meno di un cambio radicale di rotta. Ma profondo, e soprattutto politico. Non tanto la ridicola proposta di qualche giovane vecchio dell'oligarchia di apparato che ha suggerito di fondere il Pd con Sel di Vendola per risolvere i problemi, come se i tre milioni di voti persi tornassero per incanto con una semplice alchimia di facciata, studiata solo per cercar di azzoppare un'altra volta Matteo Renzi.


La prova vera si avrà con l'elezione del Presidente della Repubblica. Se Pierluigi Bersani, come tuttora sta facendo, crede di risolvere tutto puntando su un nuovo presidente che gli ridia l'incarico (quasi che Napolitano fosse il cattivo, e la colpa del fallimento delle esplorazioni fosse del Quirinale), allora il Pd segnerà l'ultimo atto di questa tragica commedia. Dopo aver piazzato - disponendo di solo un quinto dei voti degli italiani - propri uomini a capo della Camera e del Senato, pretendendo il governo e magari anche la presidenza della Repubblica, il Partito democratico rischia di trovarsi ad elezioni anticipate isolato e reietto, con sulle spalle il marchio dell'ingordigia, del settarismo e dell'incapacità di risolvere i problemi e governare.

 

Di fronte all'elezione del successore di Napolitano il Pd può giocarsi l'ultima carta: promuovere un'intesa larga, non bilaterale (né con Grillo, o con il solo Berlusconi), ma ampia ed estesa a tutte le forze politiche, per preservare il Quirinale dal collasso dei partiti e della politica, e non trascinare anche il Presidente della Repubblica nella crisi istituzionale più grave del Paese. E su un nome condiviso, di garanzia per tutti, possibilmente di prestigio e di grande capacità politica, ricostruire il terreno per un governo ampio, di «salvezza nazionale», non marcato politicamente di un solo colore o di un solo colore dominante, capace in pochi mesi di riformare le istituzioni e la legge elettorale, e di rilanciare l'economia dopo i sacrifici della tenuta dei conti.

 

Per fare questo c'è bisogno al Quirinale di un uomo (o anche di una donna, meglio ancora), che non sia espressione solo di uno schieramento, anche se il Pd può essere tentato di usare i suoi semplici voti, e poco altro. Un Presidente della Repubblica forte, perché votato da un ampio ventaglio di forze (non solo da chi ha il 54% dei seggi con il 29,5% dei voti popolari), capace di dar vita sotto il suo arbitrato ad un «governo del Presidente», embrione di quel semipresidenzialismo alla francese di cui, insieme ai collegi uninominali, l'Italia ha assoluto bisogno quale via d'uscita alla attuale paralisi istituzionale.

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