In tre a processo: cocaina e pestaggi nel salotto della città

Prima la lite in bagno, il dubbio sull’uso di droga, la scazzottata tra i clienti. Poi il pestaggio. E alla fine le minacce. Quelli tra il 23 e il 25 ottobre 2016 sono stati giorni difficili all’allora bar Das Mor, in piazza Rosmini, che ora ha cambiato gestione. Fatti approdati ieri in tribunale, in un processo tutto tranne che semplice. Perché persino le presunte vittime faticano - dopo tre anni - a ricordare i dettagli di quei giorni. E perché forse quelle giornate sono state persino più confuse di quanto avesse ipotizzato la procura. Il risultato è che l’udienza è stata sospesa. Si ricomincia il 16 luglio. Ma di sicuro questo processo offre uno spaccato interessante delle serate in piazza Rosmini. Un tempo il salotto buono della città, in cui ora un barista rischia di essere preso a pugni.

I fatti, intanto. A processo sono finiti in tre: X. V., 24 anni albanese (avvocato Luigi Campone), S. H., 24 anni roveretano (avvocato Roberta Toldo) e A. M., 24 anni di Rovereto (avvocato Mauro Bondi), con l’accusa di violenza privata e lesioni personali aggravate. Tutto per una serie di episodi, che si sono concentrati in pochissimi giorni. L’inizio, la sera del 22 ottobre. La titolare del locale ha visto 4 ragazzi che si chiudevano in bagno.

«Non era la prima volta che si comportavano male, venivano nel locale con della droga, io non volevo. Sono andata in bagno, ho detto loro di uscire e andare via - ha raccontato lei ai giudici - uno di loro mi ha mostrato il pene, dicendomi una cosa volgare e, quando mia madre si è messa in mezzo, l’hanno presa a calci».

Questo è il primo episodio. Il secondo sarebbe arrivato di lì a poco: il marito della signora, rientrato al locale, si sarebbe preso un pugno in volto: «Mi ha detto che non potendo picchiare mia moglie, avrebbero picchiato me. E mi ha colpito. E un pugno l’ha dato al mio dipendente». Finita lì? No. Perché gli avventori se ne sono andati per poi tornare, quando ormai era notte. E lì se la sarebbero presa con il marito della titolare: «Mi si è avvicinato uno, mi ha sfidato, ha cercato di darmi dei calci - ha raccontato - Quando l’ho fermato, ha chiamato i suoi amici. Erano 4 o 5, io ne ho riconosciuti 3. E mi hanno picchiato. Pugni, e quando mi hanno fatto finire a terra, calci».

Questo il racconto, queste le accuse, a cui si aggiunge la processione dei genitori che, nei giorni successivi, sono passati dal locale chiedendo di ritirare la querela. Qualcuno con l’aria supplichevole, qualcuno minacciando: «Mi hanno detto che mia madre e i miei figli passeggiano da soli in strada», ha detto la titolare.
Al di là della vicenda, inquietante, rimane il clima di tensione sulla piazza, con i carabinieri che spiegano come quella non fosse la prima volta che lì venivano chiamati.

Ma il processo non si è chiuso. Anzi, sarà complicato chiuderlo. Perché queste sono le versioni delle vittime, a grandi linee. Ma nei dettagli non corrispondono. Perché dopo 3 anni non tutto resta in mente. Solo che per le difese questo è materiale per parlare di ragionevole dubbio.
A ciò si aggiunga un dettaglio che rischia di aumentare la confusione. Tra il presunto pugno al marito della titolare e la successiva aggressione, il gruppo è stato mandato via. A spiegare come, è stato chiamato il fratello della titolare, che ha ammesso che ci sarebbe stata una scazzottata. Che significa rissa. Che è reato. Un reato di cui il testimone rischiava di accusarsi. Da qui la sospensione del procedimento: il teste dovrà ripresentarsi, ma accompagnato da un avvocato. E gli atti finiranno in procura. Il rischio, insomma, è che a processo per i fatti di quella sera non ci finiscano solo i tre imputati di ieri.

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