Il cardiochirurgo dei bambini

Il medico della Rotaliana che da anni lavora in Inghilterra presso l'ospedale pediatrico di Southampton

di Lucia Facchinelli

Quando si è colpiti da una malattia, qualunque sia la sua entità, fisica o psichica, ogni essere umano ha un unico desiderio: guarire. Se poi il malato in questione è un bambino, il sogno si dilata, comprendendo i genitori e tutta la rete familiare che lo circonda. Questo discorso assume declinazioni diverse a seconda del luogo dove si trova il bambino ammalato: nei paesi occidentali le possibilità di accesso alla cura garantita dalla medicina sono diverse evidentemente dai paesi in via di sviluppo. Nicola Viola , classe 1970, è un medico della Rotaliana che da anni lavora in Inghilterra presso l'ospedale pediatrico di Southampton, specializzato in cardiochirurgia pediatrica. 

Da anni organizza e partecipa a diverse missioni umanitarie nei paesi in via di sviluppo, durante le quali contribuisce alla formazione del personale sanitario locale e soprattutto opera bambini affetti da gravi patologie cardiache congenite, costretti a lunghi mesi di attesa prima di poter risolvere i loro problemi. Al suo paese, Mezzocorona, ha raccontato la sua esperienza davanti a un pubblico attento e numeroso: «Insegnare ai medici la tecnica chirurgica è come seguire il decorso post operatorio dei bambini: è fonte di grande soddisfazione per me e il mio staff. Pensare che grazie al trasferimento della mia conoscenza i bambini di Cambogia, India, Africa potranno esser curati in tempi relativamente brevi nel loro paese, dà senso a tutta la mia concezione di medico» ha spiegato Nicola Viola. 

Dopo il diploma conseguito al Prati di Trento, Nicola si è laureato in Medicina a Verona. Si è specializzato in chirurgia cardiotoracica a Gerusalemme dove è rimasto nove anni, imparando l'ebraico. Dopo quest'esperienza ha deciso di trasferirsi con la famiglia in Gran Bretagna e nel giro di poco tempo è stato nominato responsabile dell'unità di cardiochirurgia del Childrens's Hospital. L'idea di partecipare a missioni all'estero è conseguente al programma di scambi con gli ospedali italiani: «Molti giovani medici fanno esperienze in cliniche inglesi e americane. Chi lascia l'Italia lo fa perché spera in qualcosa di meglio per la propria professione, convinto che solo aprendosi e conoscendo altre culture e modalità operative possa contribuire al meglio alla salute del paziente», sottolinea il chirurgo.

Le missioni sono organizzate da fondazioni che generalmente propongono agli ospedali locali dei progetti in determinati ambiti quali la chirurgia d'urgenza o pediatrica e gli operatori sanitari partecipano a titolo gratuito. 
«Sono contrario all'accezione occidentale di missione intesa come colonizzazione sanitaria. Credo sia fondamentale insegnare a pescare piuttosto che offrire pesce, metaforicamente parlando. I medici locali devono essere in grado di lavorare in autonomia, solo così riusciranno a rispondere alle numerose richieste e a mettere l'interesse del piccolo paziente al centro di tutto il loro agire. Non basta inviare container di farmaci e attrezzature che poi rischiano di non esser usate».

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