Vite Intrecciate in comunità L'aiuto a chi rimane indietro

di Giuliano Beltrami

Arrivarci è mica facile, soprattutto adesso che la neve rallegra il paesaggio ed intristisce le strade. «Vieni da Tione? Prendi la viuzza a sinistra, poi ancora a sinistra, prima di Giustino». Tutto chiaro?
Arrivi, ed entri in un'oasi. Il nome è un programma: Vite Intrecciate. Hai presente cosa significa intrecciare, unire, stringere? Pensa alla solidità dei cesti di una volta, fatti di vimini intrecciati. Intrecciare vite significa cercare di non soffrire di solitudine in una società che le solitudini le costruisce in serie.
Ed è vero: le vite qui si intrecciano. Sei anni fa Oriella e Paolo (coppia storica dell'Operazione Mato Grosso) giocarono la scommessa. Qualcuno offrì loro la casa, un ex agriturismo. E l'oasi è cresciuta. E' diventata un punto di riferimento per centinaia di persone: giudicariesi, trentine, italiane, straniere, che importa? Ad importare è il rispetto imprescindibile di alcune parole chiave: gratuità ed accoglienza prima di tutto.
«Chi fa la poesia sull'accoglienza non l'ha mai praticata», taglia corto Oriella, che racconta: «Quest'estate abbiamo organizzato i cento giorni della carità. La nostra amica, suor Paola di Brescia, tutte le mattine alle 6,30 prepara la colazione a sessanta senzatetto. L'aiutante più bravo che ha è musulmano. Ci ha detto: La paura fa novanta, l'amore fa cento. Ecco il perché dei cento giorni». Le fa eco Maria: «Abbiamo avuto quaranta ragazzi tutte le settimane. Si mangiava sotto la tettoia. Quaranta non a caso: avremmo potuto ospitarne di più, ma quel numero ci ha permesso di rispettare le regole. Giovani di tutta Italia per fare i lavori per i comuni (pulire strade e sentieri, tracce delle funivie), curare l'orto (ne abbiamo quattro), lavorare per i privati (nei giardini e nelle scarpate). E poi vita di comunità: al mattino riflessione insieme, colazione e poi partenza per il lavoro; pranzo e cena insieme; alla sera canti, giochi, riflessione sulla povertà, sull'amicizia, con testimonianze dalla missione. Mediamente i ragazzi si fermavano una settimana, ma un gruppo di dieci si è fermato tutto il mese di agosto; quattro o cinque tutta l'estate, mentre una ragazza si è fermata a fare l'anno».
La missione. E' ancora Maria a raccontare. «Storicamente Mato Grosso è stato vissuto come l'organizzazione che raccoglie il ferro per mandare i soldi in Perù. La nostra Casa non è più solo quello. E' una realtà sul territorio che si occupa sì del Perù, ma ha maggior peso nella realtà che viviamo ogni giorno: servizi per i giovani, per le famiglie svantaggiate».
Quando arriviamo Oriella sta buttando la pasta per tutti: chi c'è c'è. E mangia. Paolo prepara una borsa con pasta, olio e pelati: servono per una famiglia della media Rendena che ha difficoltà. Sì, perché le difficoltà non sono lontane. «E' così - esclama con il tono morbido Paolo. - L'altro giorno è venuta una signora per chiederci se avevamo i moon boot per il figliolo. Abbiamo rovistato nella roba che la gente ci porta, e (si apre al sorrisone) abbiamo trovato i moon boot proprio dello stesso numero».
«Hai capito la fortuna?», ci scappa detto. Paolo ci guarda e corregge: «La provvidenza. Questa è provvidenza». Chiniamo il capo.
Continua Maria: «Problema: le istituzioni sono rimaste al Mato Grosso per il Perù (quando dici istituzioni intendi quelle politiche, ndr). Con le assistenti sociali della Rendena c'è un legame quotidiano, perché tante situazioni al limite non trovano collocazioni da nessuna altra parte. Cosa fai con un ragazzo delle medie sospeso? In tempo di Covid chi lo prende? Così viene qua tutte le mattine».
Vita di comunità. C'è Elena di Mantova (fisioterapista fino ad un mese fa), c'è Stefano (ingegnere del lago di Como, 28 anni, qui da 3), c'è Silvia della Valtellina. Tutti insieme, serenamente. Vacche, pecore, capre, maiali, galline, conigli, orti. Si munge e si fa il formaggio; si producono marmellate; non mancano i salumi. «Passano i turisti – racconta Stefano – perché qui c'è la passeggiata sulla Sarca. Il formaggio di giugno è finito in agosto».
Oasi? Oriella ha la solidità femminile: guanti di velluto, ma pugno di ferro. «E' una vita faticosa - commenta - ma a contare è la motivazione». E' d'accordo Elena, così come Silvia, Federica, Simone e tutti coloro che sono passati di qua. Lo capisci dalle lettere che scrivono quando se ne vanno, lettere che vengono custodite gelosamente e con orgoglio.

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