L'odio e la discriminazione dilagano sui social network

Non solo foto di gattini e selfie con gli amici: la Rete e i social network sono diventati luoghi virtuali di violenza e discriminazione

Non solo foto di gattini e selfie con gli amici: la Rete e i social network sono diventati luoghi virtuali di violenza e discriminazione, in cui il popolo digitale, continuamente chiamato a dire la sua su ogni cosa, spesso dà il peggio di sè attraverso le parole, senza che nessuno ponga dei limiti. È il quadro che emerge da «L’odio non è un’opinione. Hate speech, giornalismo e migrazioni», la ricerca condotta da Cospe nell’ambito del progetto europeo Bricks - Building Respect on the Internet by Combating hate speech e presentata questa mattina a Roma da Fnsi, Articolo 21 e Carta di Roma proprio in occasione della Giornata mondiale contro il razzismo del 21 marzo.

Attraverso l’analisi di casi di studio e interviste, il rapporto (che ha coinvolto direttori e caporedattori di testate come Il Post e l’Espresso, staff incaricati di community management, esperti di social media strategy, blogger di testate nazionali, esponenti di associazioni e organismi pubblici di tutela) pone al centro il lavoro giornalistico ai tempi del web, tra problematiche di gestione delle community e necessità di informare il pubblico. Se, come diceva Gaber, «libertà è partecipazione», ciò comporta però anche l’aumento del rischio di una violazione delle più basilari norme di rispetto: a una maggiore democratizzazione dell’informazione e degli strumenti di comunicazione si è infatti accompagnata una sensibile crescita di attacchi razzisti rivolti a colpire i più deboli, i «diversi» e le minoranze.

I dati più aggiornati sul contesto italiano sono quelli diffusi da Unar (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) che nel 2014 ha registrato 347 casi di espressioni razziste sul web, di cui 185 su Facebook e le altre su Twitter e Youtube. A queste poi se ne aggiungono altre 326 nei link che le rilanciano, per un totale di 700 casi. Che il fenomeno sia in forte crescita è indubbio, soprattutto per la forte crisi umanitaria in atto in Europa e gli episodi di terrorismo; ma è altrettanto evidente la necessità di una regolamentazione purtroppo ancora assente, in grado di arginare il dilagare di commenti razzisti a margine di articoli e nei forum dei giornali online, oltre che sui social network.

«Il linguaggio dell’odio è analfabetismo ed è solo una via breve per non proporre un ragionamento: quindi combatterlo non è censura», ha detto questa mattina Beppe Giulietti, presidente della Federazione della stampa, sottolineando l’urgenza che questo rapporto «venga inviato nelle redazioni affinchè se ne possa discutere. Ma devono essere coinvolti anche i proprietari e direttori delle testate, non solo i giornalisti». Anche Pietro Suber (Carta di Roma) ha ribadito che «bloccare l’hate speech è un dovere professionale e una battaglia civile: le redazioni devono bannare i commenti razzisti e riportare la discussione su toni più accettabili». Ed è proprio nel coinvolgimento diretto di chi fa informazione che si concentrano le conclusioni della ricerca: da un lato le testate hanno bisogno di definire la propria policy in materia di hate speech e di non discriminazione, dall’altro serve ripensare il ruolo del giornalista, il cui lavoro non può più concludersi nella diffusione del pezzo. Il giornalista oggi deve infatti anche saper interagire con gli utenti e moderare i commenti (al fine, perchè no, di raccogliere spunti per nuovi contenuti), ma anche collaborare con social media manager e content curators, figure ormai centrali nell’era digitale. Alla ricerca seguirà la campagna europea «Silence hate - changing words changes the world» con l’hashtag #silencehate che sarà lanciata il 21 marzo per promuovere un uso consapevole della Rete.

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