Tifoso viola all'Olimpico: «Il calcio italiano cambierà?»

Jacopo, un ragazzo trentino tifoso della Fiorentina, sabato 3 maggio era allo stadio Olimpico per la finale di Coppa Italia. Un match che verrà ricordato non per i gol, le azioni, le esultanze, ma per tutto quello che è successo prima del fischio d'inizio. Verrà ricordato per "Genny a carogna", per i colpi di pistola, per i vertici dello stato e del calcio immobili al cospetto dei capi ultras. Ecco il bellissimo racconto di Jacopo, le emozioni (non positive) vissute dalla curva e le domande (senza risposta) che nascono spontanee, in lui e in tutti gli appassionati di sport

genny a carognaJacopo, un ragazzo trentino tifoso della Fiorentina, sabato 3 maggio era allo stadio Olimpico per la finale di Coppa Italia. Un match che verrà ricordato non per i gol, le azioni, le esultanze, ma per tutto quello che è successo prima del fischio d'inizio. Verrà ricordato per "Genny a carogna", per i colpi di pistola, per i vertici dello stato e del calcio immobili al cospetto dei capi ultras. Ecco il bellissimo racconto di Jacopo, le emozioni (non positive) vissute dalla curva e le domande (senza risposta) che nascono spontanee, in lui e in tutti gli appassionati di sport.

 

LA LETTERA

“Roma - Stadio Olimpico, sabato 3 maggio, ore 20.30. Le gambe tremano dall'emozione, non riesco a fermarle e quando il boato cresce sale anche l'adrenalina, ho la pelle d'oca... si comincia. Ma dopo i primi attimi di trepidazione tutto di colpo si capovolge. La partita non inizia, passano i minuti e l'incredulità fa da padrona. Nelle curve gremite gira la voce che un tifoso napoletano è in fin di vita per una ferita d'arma da fuoco.


Improvvisamente la mia mente si blocca, si svuota di tutto ciò di cui si era nutrita pochi minuti prima. Tutto si azzera, si spegne. Qualcuno ci fa sapere che il ragazzo è morto e non si sa se la partita avrà inizio. Il tempo trascorre vuoto, come se la lancetta dell'orologio scattasse sul posto, nessuno entra sul terreno di gioco, nessuno comunica con i 60 mila spettatori. Io mi sento come  fossi un'altra persona rispetto a quella che poco prima aveva salito la scalinata a due a due col batticuore. Tutto improvvisamente mi sembra insulso, grottescamente teatrale e ridicolo.


Mi vergogno d'essere lì. Non mi esce più una parola, le emozioni se ne sono andate e resta solo lo sgomento di fronte a una situazione che non ha nulla a che vedere con la festa che mi aspettavo, con lo sport, con la passione del tifo.
Comincio a farmi delle domande, mi distacco totalmente dal clima “partita” e ritorno cosciente del fatto che sono un essere pensante. All'improvviso credo di essere in mezzo a una massa di gente pazza che paga per vedere 22 persone che per un'ora e mezza cercano di mettere un pallone in fondo a una rete. E l'assurdo è che è proprio così. Sento che la mia coscienza ha messo da parte la passione e sta spingendo per distaccarmi da quella realtà.


Ma si può davvero morire per una partita di pallone? Incomprensibile.
Intanto dalla parte opposta alla mia postazione la curva dei sostenitori del Napoli, spazientita, inizia un lancio di bombe carta e fumogeni in testa a chi, suo malgrado, si trova al di sotto di loro per svolgere il proprio lavoro. Ragazzi che presumibilmente non hanno preferenze di bandiera o colore della maglietta. Cerco conforto nelle parole del mio compagno di viaggio. Maurizio è cresciuto a Bari, sa per esperienza che la gente che non si sopporta, a volte, si ammazza. Per lui è un episodio che può succedere ma non deve interferire con lo spettacolo... The show must go on.


Come direbbe un'alta carica dello stato. E così decidono anche le società d'accordo con le istituzioni... si gioca. Il mio umore per tutti i 90 minuti rimarrà sempre uguale. Il pensiero sarà fisso sull'inutilità di tutto ciò che stava accadendo intorno a me. Per la cronaca vince il Napoli 3-1 ma la differenza la fanno i primi 20 minuti di gioco quando Insigne batte per 2 volte il portiere della Fiorentina, con una semplicità quasi calcolata, come se si sapesse già dovesse finire così...


Il giorno seguente si viene a sapere che per dare il fischio d'inizio il capitano della squadra partenopea abbia dovuto chiedere il benestare al capo ultrà napoletano. Un certo Gennaro De Tommaso, conosciuto come “Genny A'carogna”. Presumibilmente il giocatore avrebbe comunicato che il tifoso ferito era fuori pericolo e che si poteva giocare. Ma il figlio del noto camorrista Ciro De Tommaso fa un patto col il calciatore. “Giocate pure ma noi non canteremo”. A quel punto con un cenno delle braccia tranquillizza la curva che sta ai suoi ordini e, sfoggiando una maglietta a dir poco vergognosa, si rimette tranquillo al suo posto. Il ragazzo tutto muscoli e tatuaggi ha scritto sul petto “Speziale libero”. Ricordo l'episodio legato a quel nome e non comprendo il motivo di mostrare un messaggio così insensato.


I giorni successivi la partita mi convinco sempre di più che tutti gli episodi vissuti in quella triste serata non hanno nulla a che vedere con una partita di calcio. Ma le cronache televisive non sono molto d'accordo con la mia teoria e fanno sembrare lo stadio un campo di battaglia. Purtroppo i personaggi coinvolti hanno usato l'evento sportivo come pretesto per sfogare la loro rabbia. Rabbia che però sicuramente deriva da una profonda insoddisfazione, da un disagio sociale e culturale. Il fatto che tutto lo stadio abbia fischiato l'incolpevole Alessandra Amoroso durante l'inno italiano dimostra che c'è una divisione enorme, una sfiducia nell'operato delle istituzioni e una diversità culturale che ci trasciniamo da più di un secolo.


Il problema vero non sono gli stadi, il calcio o la disorganizzazione delle autorità. Il problema è sociale! All'uscita dallo stadio ho dovuto camminare per una decina di minuti con la paura che mi succedesse qualcosa. Non solo i rapporti tra tifosi fiorentini e napoletani non sono dei migliori, ma c'era il pericolo di imbattersi nei tifosi laziali e romani che a loro volta odiano quelli napoletani. E il  degrado che notavo attorno a me rincarava la dose di angoscia.


Il fatto è che non è possibile che le squadre di calcio debbano chiacchierare con le proprie tifoserie, non può esserci questo rapporto confidenziale. Nel mondo del pallone girano troppi interessi, troppi soldi. Bisogna che tutto si ridimensioni altrimenti le organizzazioni criminali continueranno a mangiarci sopra e a nutrire altri delinquenti che, di questo passo, andranno a implementare la marmaglia di personaggi poco buoni che contengono gli stadi, allontanando le famiglie, allontanando chi, come me, ogni tanto vuole vedersi una partita. Andando avanti così si creeranno sempre più diversità culturali e nasceranno nuove guerre tra bande. Speriamo che questo ulteriore atto di violenza faccia da miccia per far riflettere chi ha modo di poter cambiare le cose.


Il rispetto e la disciplina che si sono create in Inghilterra sono figlie di una presa di posizione forte, che voleva portare un cambiamento radicale nel modo di vivere il Football per gli hooligan. Lì hanno voluto cambiare. In Italia ci sarà la possibilità di fare la stessa cosa? Lo sport deve dare emozioni, deve insegnare ai giovani cosa vuol dire non arrendersi mai, deve dare messaggi forti, di cambiamento, perchè, soprattutto nel calcio, i giocatori hanno una visibilità mondiale. Ma devono essere anche i governi a sostenerli.


In Brasile ho visto con i miei occhi radere al suolo migliaia di abitazioni di gente poverissima soltanto per realizzare uno stadio. Così facendo si creeranno sempre più scalini tra le classi sociali. Tutto il mondo dello sport deve fare un ragionamento e fermarsi, per capire che ci sono cose più importanti di una partita di pallone.

 

Jacopo Ricci

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