Svelata la malattia che stroncò S. Ubaldo patrono di Gubbio

Dopo più di 800 anni ha finalmente un nome, la terribile malattia che portò alla morte tra atroci sofferenze Ubaldo Baldassini, vescovo e santo patrono di Gubbio. Le bolle che gli hanno lentamente ustionato la pelle, esponendo le carni sottostanti, sono state provocate da una patologia autoimmune della cute, il pemfigoide bolloso, che favorendo la disidratazione del corpo ha paradossalmente aiutato la conservazione della mummia, oggi ospitata nella basilica di Gubbio che porta il nome del santo. A indicarlo è uno studio pubblicato su Journal of European Academy of Dermatology and Venereology da un'equipe di medici italiani coordinata dal dermatologo Giuseppe Cianchini e dall'anestesista Mauro Pierotti. 

"I sintomi della malattia sono descritti dettagliatamente nelle due biografie del santo", spiega il chirurgo estetico Davide Lazzeri, da tempo impegnato nello studio della medicina nell'arte e nei personaggi storici. "Le cronache ci dicono che negli ultimi due anni della sua vita, Ubaldo è stato colpito da una malattia cronica e progressiva che gli provocava dolori urenti in tutto il corpo, con vescicole piene di liquido sieroso che lo hanno come ustionato, provocando la perdita della pelle e l'esposizione delle carni: per consentirgli di riposare, era stato perfino preparato un letto speciale con doghe solo in corrispondenza della testa e delle gambe, in modo che il tronco rimanesse sospeso per non provocare ulteriori dolori nel contatto". 

Il primo a insospettirsi di fronte a queste descrizioni è stato Mauro Pierotti, anestesista dell'ospedale di Gubbio e presidente dell'Associazione eugubini nel mondo, che dopo aver visitato la mummia ha deciso di coinvolgere nello studio anche Giuseppe Cianchini, dermatologo all'Ospedale Cristo Re di Roma, insieme a Davide Lazzeri e il chirurgo plastico Fabio Nicoli. L'ipotesi del pemfigoide bolloso, ritenuta la più plausibile dagli esperti, potrebbe spiegare anche le tre fratture agli arti avute da Sant'Ubaldo negli ultimi anni di vita: studi recenti hanno infatti dimostrato che la malattia si accompagna spesso a deficit di vitamina D e a fragilità ossea.

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