Nancy Rosenthal, giurata a Trento «Così è nato il Wild Film Festival di New York»

di Paolo Ghezzi - NO

Dieci sono gli occhi che giudicano i film i concorso. Quattro sono italiani, due indiani, due inglesi, e due americani, quelli di Nancy Rosenthal, che a New York si è inventata un piccolo ma significativo Wild Film Festival. L'abbiamo incontrata ieri al Cinema Modena, in una pausa del suo lavoro di «visione».
Lei è una montanara, Nancy?
«Non esattamente. Sono nata a Washington D. C. Sono una cittadina, ma amo la natura, l'oceano, vado in barca, faccio immersioni, non sono affatto un'alpinista, ma amo camminare».
E com'è nata la passione per la natura?
«Dopo gli studi universitari di politica estera e relazioni internazionali, sono entrata al National Geographic come ricercatrice, ci ho lavorato per una quindicina di anni, ho imparato tanto dagli esperti di natura, conservazione ambientale, geografia, scienza - al National c'è una squadra eccezionale, di persone affascinanti - ho finito come produttrice di film per bambini, nella divisione video di National Geographic. Poi sono diventata una free-lance e ho prodotto film su temi totalmente diversi: arte, performance, danza, storie di persone».
Quando ha avuto l'idea del Festival?
«Avevo seguito altri Festival, li ho studiati e cinque anni fa ho cominciato a parlare con un po' di gente. E soprattutto ho contattato l'Explorers' Club di New York, tremila soci, che ha oltre un secolo di vita e più o meno la stessa mission del National Geographic: finanziare la ricerca, l'esplorazione, la difesa dell'ambiente. Sono loro che hanno cominciato il Festival, io sono stata coinvolta poi perché l'iniziativa coincideva totalmente con i miei interessi: l'idea di dare spazio ai film di natura ed esplorazione, e rendere omaggio ai registi e documentaristi che sono così appassionati nella loro dedizione a questi contenuti».
Nella foresta dei grattacieli, aprite una finestra su altre foreste, altri cieli.
«Sì, io penso che New York sia il luogo ideale, proprio perché è la quintessenza dell'urbanesimo: i newyorkesi non hanno intorno a loro le vostre belle montagne, ma sono affamati di esperienze nella natura. E io non propongo soltanto film, ma anche relatori che spalancano gli orizzonti. E la risposta del pubblico è stata entusiastica. Per l'ultima edizione ho ricevuto 200 proposte da 27 Paesi, ho programmato 21 film in tre giorni, dai corti di 3 minuti ai lungometraggi a soggetto. Lo facciamo in gennaio, quando fuori magari nevica e fa freddo, la gente sta volentieri un'intera giornata al Club, a vedere film, discutere, continuare a parlarne a pranzo. Il tutto senza muoversi dal Club. È un'esperienza familiare, quasi intima...».
Come ha conosciuto Trento?
«Sono venuta con un'amica, Rebecca Martin, che fa parte dell'Expeditions Council del National Geographic e che conosceva il Festival di Trento. Siamo venute insieme l'anno scorso, era un'idea che avevamo da tempo. La città è meravigliosa, è una fonte di ispirazione: senti che qui c'è una comunità che aspetta l'evento, che lo accompagna. Mi piace perché lo stile è diverso da quello americano, e ci sono film diversi da quelli che si vedono negli Stati Uniti».
E come giurata, qual è il suo feeling?
«Sono entusiasta e molto onorata, prima di tutto. Ho fatto questa esperienza in altri festival, ma è sempre una cosa nuova. Qui abbiamo visto dei film con il pubblico, altri solo noi giurati: siamo circa a metà percorso. Non sono autorizzata a parlare del livello artistico, osservo solo che i film europei spesso sono più intimi di quelli americani, ti portano dentro le esperienze personali di vita. Sarà difficile proclamare un vincitore, sicuramente: è sempre così. Abbiamo cominciato a discutere i film dopo ogni proiezione, ma poi abbiamo deciso di rinviare le valutazioni "da giuria" alla fine di tutta la serie di film. Tra uno e l'altro ci limitiamo a piccole conversazioni informali. Il lavoro di giurati lo faremo alla fine».
Vedere un film resta comunque, da spettatore, una grande avventura. Se poi ti porta nelle avventure degli altri...
«Ne sono convinta. Anche se non faccio più la produttrice, come nel film sulla Papua Nuova Guinea che mi è capitato di fare, sono convinto che il film è il mezzo più potente in assoluto per emozionare e per coinvolgere il pubblico. Una storia ben raccontata sullo schermo ti cattura».
E, tornando agli americani, voi avete ottimi registi ma anche arrampicatori.
«È così: e gli americani adorano vedere i film sulle arrampicate: gli spettatori raccontano che gli pare di sudare con gli scalatori. Al nostro Festival abbiamo proiettato un film su Alex Honnold, il solo climber ...
...uno dei grandi ospiti, oltre che giurato, l'anno scorso qui a Trento...
«...e dopo il film hanno avuto modo di incontrarlo dal vivo, e questa è stata per loro un'esperienza davvero straordinaria, in particolare per la comunità arrampicatrice dei newyorkesi, che è abbastanza robusta perché intorno alla grande città abbiamo anche montagne da scalare».
E il Festival 2016?
«Dovrò cercare una sala più grande, almeno per l'evento del sabato sera, perché la sala del Club ha solo 130 posti, ed è già sold out, e sono cominciate le lamentele...».

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