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Giacomo Matteotti: 100 anni fa il delitto di regime che svelò il vero volto del fascismo/3

Da decenni sappiamo che il capo dei sicari aveva raccontato, la sera stessa del delitto, come il rapimento si era trasformato in omicidio; il fatto era stato riferito al Duce che, probabilmente, avvertì i suoi ministri che gli assassini erano fascisti
PRIMA PUNTATA 
SECONDA PUNTATA

di Luigi Sardi

È il 18 giugno, le prime pagine dei giornali sono pieni di titoli su quello che ormai viene chiamato “delitto Matteotti”. Ecco Isabella, la madre dell’onorevole, invitare alla calma e alla pietà. Chi le era accanto racconta che l’hanno sentita dire - e la “Stefani” ha divulgato quel grido di angoscia - quel “cercatelo e rendetemelo, in qualunque stato si trovi”; dalla folla che si era raccolta attorno a lei molti gridarono “sarà vendicato” e Isabella alzando le braccia al cielo ha gridato: “Vendetta no, dite che la madre di Matteotti prega” e si è inginocchiata piangendo nella piazza. Sollevata di peso dai suoi parenti e da un ufficiale del Regio Esercito è stata messa in un’automobile che si è allontanata, mentre gli uomini si scoprivano e le donne si inginocchiavano”.

A Trento i giornali scoprono che i nonni e bisnonni del deputato erano di Comasine; anche Girolamo Stefano, il padre del deputato, era nato in quel bellissimo paese della Valle di Pejo il primo ottobre del 1839 mentre la madre - Isabella Garzarolo - era di Fratta Polesine dove Giacomo era cresciuto. Sulla facciata della casa degli avi di Matteotti, una targa ricorda il deputato è ancora visibile parte dell’affresco del 1763, che raffigura la Madonna e le anime del Purgatorio, dipinto deteriorato e danneggiato dagli elementi atmosferici e dall’incendio del 1924. Si vede anche una parte dello stemma dei “Matteotti”. Grazie al Comune di Peio, nell’autunno del 2015 venne restaurata la facciata dell’edificio, consolidando l’intonaco e quanto ancora rimane dell’affresco e dell’originale stemma della Famiglia Matteotti. Nel 1954, trentesimo anniversario della scomparsa dello statista, a Comasine si tenne una solenne celebrazione commemorativa a cura della Federazione Tridentina del PSDI, con una lapide posata su una facciata di quella che fu la dimora degli antenati del deputato. Le cronache dell’epoca ci tramandano che “la partecipazione di folla fu grande e mai, nel piccolo paese, si erano viste tante persone”. Il delitto, la certezza che a commetterlo sono stati i fascisti, la rabbia per le violenze nel tempo delle elezioni scatenano i giornali che vedono moltiplicarsi le vendite.

Ecco, “il nuovo Trentino” pubblicare a tutta pagina con il titolo “La pubblica opinione nell’esigere giustizia - reclama un nuovo orientamento nella vita civile” a confermare che il popolo vuole la verità, ma anche un radicale cambiamento. In quella pagina di giornale c’ è ancora il profumo della libertà di stampa che cominciava a dare molto fastidio al fascismo, al Governo, a Mussolini, ai gerarchi tutti. Alcune frasi di un lunghissimo articolo: “Dopo aver rivelata la grande impressione suscitata dall’assassinio di Matteotti (il giornale è del 17 giugno; 10 giorni dopo il rapimento si parla apertamente di omicidio, nda) e dopo alcuni accenni alla tattica fascista imposta fin ora agli altri partiti col dilemma o piegarsi o sparire… l’impressionante reazione morale della pubblica opinione non sarà destina a segnare la fine della situazione politica ancora in piedi, anzi è convintissima che l’on Mussolini, i suoi devoti e tutti i profittatori del fascismo, difenderanno con le unghie e coi denti il possesso che detengono dello Stato. Per quanto ci riguarda, noi rifuggiamo dalla violenza per convinzione morale e per ragioni politiche, deprechiamo la guerra civile… Siamo convinti che il fascismo non cadrà per forza di una reazione armata, ma per la irresistibile pressione della coscienza popolare, stanca di violenze e di torbida retorica”.

E ancora: “La soppressione del deputato dell’opposizione che si è osato compiere con tanta malvagità criminale e con tanta incoscienza politica, non potrà avere minori conseguenze dell’assassinio del capitano dei Bersaglieri Giulio Giordani” commesso dai social comunisti di Bologna nella sala del Consiglio Comunale il 21 novembre del 1920. Giordani nella Grande Guerra aveva perso un gamba della tragica Trincea delle Frasche sul Carso isontino; nella retorica del nascente regime, assurse a primo martire del fascismo bolognese. Il giornale “Il nuovo Trentino” che aveva ripreso l’articolo dal “Popolo” di Roma, elenca tutti gli omicidi commessi in quella guerra civile strisciante commessi dalle due fazioni in lotta, cominciando dalla strage dei Marinai ad Empoli per arrivare a quei criminali “che non hanno risparmiato neanche i membri del Parlamento, un misfatto orrendo che oggi ci commuove… dimostra, purtroppo, di non aver nulla imparato dalla storia, disilludendo anche quegli ambienti delle classi dirigenti, che speravano di vedere negli uomini nuovi, i restauratori dell’ordine e della disciplina”. Poi in quell’articolo che avrebbe potuto contribuire a segnare la fine del fascismo, la frase. “Bisogna tornare alla legge, alla Costituzione. Nessuna pacificazione del Paese sarà possibile finché sussisterà una milizia amata al servizio di un partito”. Ma ecco nella massa delle notizie della rubrica “Ultime della notte” del “Il nuovo Trentino” che accortamente si tiene distante sia dai rossi, i “bolscevichisti” nel linguaggio dell’epoca, e dai fascisti, un richiamo alla memoria della spedizione a Bolzano, quell’assalto a mano armata che, finalmente e grazie al Presidente Sergio Mattarella, l’Italia ha ricordato il 22 novembre del 2019. Ecco una descrizione di quell’ avvenimento che calpestò la storia di quel “Paese tra i monti chiamato Tirolo”, come scrisse Carlo Dalpiaz di Coredo in un lavoro storico del 2022 intitolato “Per la difesa del Tirolo - L’imperial e regio Casino di Bersaglio comunale di Coredo”. Ecco, iI Presidente della Repubblica ha ricordato a Bolzano la prima vittima nel Sudtirolo della violenza fascista soffermandosi nel luogo dove venne ucciso Franz Innerhofer, il maestro di Marlengo. “Solo pochi di noi [ricordano] la tragedia di quell’aprile, registrata nella storia della nostra terra come la domenica di sangue, la Blutsonntag. Ciononostante, questo drammatico episodio non si è ancora trasformato in un avvenimento storico che noi ricordiamo e le cui vittime noi onoriamo: la morte del maestro Franz Innerhofer sotto il piombo fascista”.

Con questa frase Silvius Magnago, il carismatico leader della Sudtiroler Volkspartei, aveva ricordato il maestro in quel 25 aprile del 1971 quando a Bolzano in Piazza del Municipio parlò assieme ai rappresentanti dell’Anpi, l’Associazione nazionale dei partigiani e gli esponenti della Dc, del Psi e del Pci: l’unica volta dal 1946 che ha visto la sua partecipazione ad una commemorazione della Resistenza. Il discorso di Magnago è, probabilmente, la più importante ricostruzione di quell’avvenimento che racconta “il primo, orribile segno di un’epoca che ha portato miserie indescrivibile non solo sulla nostra terra, ma su tutta l’Europa e sul mondo. Bolzano offriva l’aspetto della serenità. La rinascita economica dopo le conseguenze della guerra e del trattato di pace avevano portato alla Fiera di Bolzano” la Bozner Messe detta anche Fiera di Primavera, “un’aria di festa”, forse la prima dopo la tragedia della guerra finita nel novembre del 1918 e “alla lieta inaugurazione, la popolazione tedesca del Sudtirolo era accorsa nei suoi tradizionali costumi. Centinaia e centinaia di compatrioti, uomini, donne e bambini [vestivano] gli abiti tipici delle loro vallate; bande musicali e gruppi di valligiani si erano dati convegno per esprimere, dopo la sensazione di depressione che comprensibilmente era stata provocata dall’annessione [al Regno d’Italia], la volontà di esistere e la fiducia del popolo sudtirolese di voler vivere nel nuovo Stato in libertà ed in pace, di svilupparsi e di affermarsi”.

C’era anche un altro avvenimento che aveva spinto alla massiccia mobilitazione le genti da Salorno al Brennero. A Innsbruck c’era stato un plebiscito che chiedeva l’annessione del Tirolo alla Germania e alla Bozner Messe si era deciso di raccogliere le adesioni - ovviamente solo fra le genti di lingua tedesca - per la separazione dall’Italia. L’idea aveva messo in subbuglio i fascisti di Bolzano che per telegrafo avevano allertato le federazioni della Lombardia e del Veneto, soprattutto di Verona, Brescia, Mantova e poi Ferrara e Bologna. Manipoli sempre sul piede di guerra, visto che quella era epoca di violentissimi scontri con gli “arditi del popolo”, gli anarchici, i socialisti, in un’Italia, soprattutto quella del nord, piegata e piagata dalle enormi privazioni della guerra, prostata dalla disoccupazione, popolata da giovani uomini che dall’Isonzo al Piave, dal Montello al Grappa avevano conosciuto con il mestiere delle armi, l’odio contro il tedesco. Ed erano sopravvissuti. Ed erano i vincitori. A radunare i fascisti a Bolzano ci pensò Achille Starace, l’Ardito che aveva assunto il comando di squadre di assaltatori per poter dare, anche questo lo ha scritto Magnago, “con la scusa della difesa della Nazione, una prima prova di forza non contro la popolazione tedesca del Sudtirolo, che era pacifica, ma contro le forze dell’ordine per dimostrare in che misura le orde fasciste dominavano la strade e potevano tenere in scacco le forze democratiche”. Il 24 aprile, in piazza Walther von der Vogleweide c’era stata la prima manifestazione di violenza. Si narra - ma forse è una leggenda, però curiosa - che la “Volante Rodella”, una formazione di fascisti della “prima ora” nota fra Verona e Mantova negli assalti alle cooperative rosse, con tre camerati di Montichiari a bordo di una moto “Prinetti & Stucchi” con una mitragliatrice piazzata sul sidecar, spararono una raffica contro il Duomo. Fu il segnale. I fascisti “irruppero in piazza delle Erbe piombando su un pacifico corteo di sudtirolesi e quando furono messi in difficoltà dalla folla, impugnarono le pistole e le bombe a mano”. Per fortuna il mitragliere sparò contro il campanile. Se avesse rivolto l’arma sulla folla, sarebbe stato un insopportabile eccidio. Nel giorno della fiera, il maestro Franz Innerhofer era venuto a Bolzano quale componente della sua banda musicale portando un gruppo di ragazzi che indossavano i vivaci costumi tirolesi. Quando scoppiarono i tumulti, la preoccupazione dell’Innerhofer fu quella di portare in salvo i ragazzi lungo via Museo e via della Roggia. Uno gli stava particolarmente a cuore, il piccolo Hans Theiner, che aveva potuto venire a Bolzano solo dopo le particolari insistenze del maestro presso i genitori. Lo sospinse fino al Palazzo Stillendorf vicino alla Chiesa del Sacro Cuore, luogo che giudicava come il più sicuro per il suo protetto. Ma le squadre fasciste si erano spinte anche lì, videro Innerhofer e gli spararono attraverso le sbarre del cancello. Una pallottola colpì il maestro “che cadde nel suo sangue sul primo scalino della scala che porta ad un corridoio, ma il piccolo Hans era salvo” e venne portato via da quel luogo da Menz Popp.

Disse Magnago: “Franz Hinnerhofer resterà sempre per noi un particolare simbolo ammonitore; era stato ucciso solo perché apparteneva ad una minoranza, dagli aderenti ad un gruppo politico che avevano iscritto sulle loro bandiere la violenza e l’oppressione. La libertà ebbe nel maestro di Marlengo la prima vittima. La vittima successiva della dittatura fascista fu la libertà stessa”. Riportava un articolo de “Il nuovo Trentino” di martedì 27 aprile con il titolo “Echi dei fatti di Bolzano” come era avvenuto “l’incidente”. Poche righe della “Stefani”: “Un corteo tedesco fu disturbato dai fascisti; si hanno a deplorare un morto ed una decina di feriti. Il governo ha ordinato che tutti quelli che presero parte all’attentato siano arrestati e che una severissima inchiesta sia compiuta per accertare se vi siano state manchevolezze da parte della forza pubblica. Il governo intende che incidenti così deplorevole non debbano mai più deplorarsi”. C’ è una seconda notizia: “Negozi ed esercizi pubblici sono chiusi; sono stati arrestati due dirigenti del fascio di Bolzano… il comitato della Fiera Campionaria ha deciso la chiusura”.

Il governatore Luigi Credaro ha pubblicato un manifesto col quale “stigmatizza l’accaduto… L’ordine pubblico sarà mantenuto dallo Stato senza riguardo per nessuno e con tutta energia” mentre con un altro manifesto avverte che “gli italiani residenti a Bolzano deplorano profondamente i gravi fatti di sangue ed esprimono alle famiglie colpite le loro più vive condoglianze”. Il giornale precisa che si ebbero incidenti tra fascisti di Bolzano e gruppi di tedeschi. “Ci furono bastonature e il fascista Beni, negoziante di qui, venne rincorso fino a casa”. E bastonato. Il giornale poi pubblica un fascio di notizie che ricostruiscono l’accaduto. Un articolo scritto da tedeschi che racconta l’episodio dove gli aggressori vengono definiti “delinquenti irresponsabili” si conclude con la frase “non subiremo più provocazioni”, fa il nome della vittima “Innerhofer di Marling” e rivolgendosi al governo avverte: “Poiché la popolazione, senza distinzioni di partito dovette dolorosamente constatare che non può attendersi dallo Stato nessuna protezione per la propria vita e propri averi, si vede costretta a provvedere da sé alla propria difesa, opporrà d’ora innanzi alla propria difesa e opporrà la resistenza al brigantaggio”. Poi la frase che riaccendeva lo spirito di Andreas Hofer: “La popolazione del Tirolo meridionale farà in modo che il mondo intero sappia in quale infame maniera viene calpestato il più elementare diritto di un popolo: il diritto di vivere”. Credaro era uomo inviso ai nazionalisti italiani, non solo per la sua simpatia per la cultura tedesca, ma anche per la politica conciliatrice che aveva tentato di attuare dall’estate del 1919, quando era succeduto al Generale Guglielmo Pecori Giraldi nell’amministrazione della regione.  Chiaramente, non si poteva pensare che l’Alto Adige - si finiva nei guai giudiziari a chiamarlo Tirolo - sarebbe diventato uno degli inciampi che trascinò l’Italia fascista nella guerra a fianco della Germania nazista. Mussolini temeva Hitler e la sua idea di Grande Germania decisa ad inglobare nel Reich i territori dove si parlava il tedesco. Hitler lo aveva terrorizzato; dopo l’Anschluss quando il Brennero era divento il confine fra il Regno d’Italia e la Germania, aveva detto - e Galeazzo Ciano - lo aveva riportato nei suoi celebri diari in una nota del 17marzo del 1939. “Il Duce è sopra pensiero, lo preoccupa il problema croato e quello altoatesino e dice: non ci sono alternative, tranne queste. O sparare il primo colpo di fucile contro la Germania o essere spazzati via da una rivoluzione che faranno gli stessi fascisti”. Poi il 13 maggio: “I tedeschi finché avranno bisogno di noi saranno cortesi e magari servili. Ma alla prima occasione, si riveleranno quei mascalzoni che sono”. Ancora il 21 novembre: “Vanno male le cose in Alto Adige… stamane [Mussolini] affermava che su questa questione si potrebbe arrivare al conflitto col Reich”.

Però quando a Berlino si cominciò a parlare apertamente della necessità di avere Trieste come porto meridionale della Germania, di occupare la Pianura Padana e le miniere di mercurio di Abbadia San Salvatore sul Monte Amiata in Toscana, esplose l’ira del Duce. Capitolo fondamentale nella storia del Regno d’Italia il viaggio del Führer a Roma fra il 3 e il 10 maggio del 1938 fra una pirotecnica facciata di ricevimenti, banchetti, parate di trentamila soldati nella Via dei Trionfi, la rivista navale nel golfo di Napoli con i sommergibili della Regia Marina - forse erano davvero cento - che nello stesso istante dopo la salva dei cannoni di coperta - si immergono, passano sotto la corazzata sulla quale si trovavano il Duce, Hitler, il Re, per riemergere tutti assieme sull’altro lato di quella nave irta di cannoni. Immagini documentate nei documentari del film “Luce” che mostrano una idilliaca alleanza. In realtà Vittorio Emanuele vedeva in Hitler “una specie di degenerato psicofisico” , con Mussolini, pochi giorni prima dell’ arrivo di Hitler a Roma, dire di essere “pronto a scatenare la più dura guerra nella quale coalizzare contro il germanesimo tutto il mondo per mettere a terra la Germania per almeno due secoli” perché sotto la spinta della propaganda nazista sembrava che i duecento mila tedeschi del Sudtirolo “stessero alzando un po’ troppo la testa”. Insomma si era riacceso il timore per la questione dell’Alto Adige; quel timore sempre presente di “vedere spostato di una solo metro il palo di frontiera”, come si diceva a Palazzo Venezia, portò il Duce ad allearsi al nazismo. Per contro - e anche questo è stato scritto da De Felice e pubblicato nel gennaio del 2001 - “l’interesse e la deferenza di Hitler per il verbo di Mussolini era così forte, da spingerlo a sacrificare la sorte dei tedeschi dell’Alto Adige sull’altare di una collaborazione fra Germania e Italia”. Nel libro “Storia del fascismo bresciano” che narra fatti e soprattutto i misfatti dal 1919 alla vigilia della Marcia su Roma del 1922 con il titolo “spedizione di Bolzano” c’ è l’unica descrizione, per cronaca ovviamente di penna fascista, di quel 21 aprile compiuta da “elementi della Lupi e della Disperata con Gino Compagnoni, Luigi Pini, Stefano Bertolazzi, Paolo Ortolani, Franco Ridolfi, Cesare Saibene, Pietro Cangia, i fratelli Matteo e Luigi Veronesi, Cesare Morandini, Giovanni Frigerio, Innocente Dugnani, Luigi Savone, Gianni Colombini, Teodoro Rigosa, Giuseppe Cirielli comandati da Luigi Begnotti, [che] parteciparono alla prima spedizione di Bolzano, ove regnava quella triste situazione determinata dalla tracotanza tedesca bene alleata ad elementi bolscevichi italiani, complice l’inetto governo di Roma”.

Le sei fotografie scattate da un fascista a Bolzano e riprodotte nel citato volume, mostrano la squadra detta “Lupi” alla partenza in treno, da Brescia; poi nelle vie della città tirolese. Non c’erano ancora la camicia nera, né il fez nero anche quello, e i distintivi con l’effige del Duce: quello obbligatorio chiamata “cimice” di fondo scuro e in rilievo in ottone, quel “PNF” (partito nazionale fascista) arrivarono dopo la conquista del potere quando Mussolini smise il cappello cilindrico chiamato “tubo da stufa”. Però era obbligatoria la giacca e la cravatta; bandito ovviamente il cravattino rosso simbolo dei socialisti. Di rigore, un tascapane da portare a tracolla, di tela militare per le armi, rivoltelle e bombe a mano. Nelle capaci bisacce che i camerati avevano a tracolla, l’arnese preferito era il petardo Thévenot, una bomba a mano di origine francese prodotta durante la Grande Guerra anche in Italia e diventata la preferita dagli Arditi dei reparti d’assalto. Poiché i depositi erano stracolmi di quegli ordigni, si potevano comperare con facilità, a bassissimo prezzo. Inoltre il loro scoppio causava un grande fragore seguito dal semplice quanto rude canto: “Se non ci conoscete guardateci dall’alto, noi siam le fiamme nere dei battaglion d’ assalto”. Narrano le cronache che i fascisti arrivati a Bolzano erano guidati da un uomo con le fasce mollettiere in uso nella Grande Guerra per riparare gli stinchi e il fez di colore amaranto con la nappina azzurra. Dunque, un Bersagliere, ovviamente un ex combattente, che esibiva il simbolo della sua divisa e le sue medaglie. Era Achille Starace che porterà il fascismo a Trento dove si preparò la Marcia su Roma. Da ricordare che il fez ha origine in Marocco; i Bersaglieri lo scoprirono durante la Guerra di Crimea nel 1855. Lo portavano gli Zuavi, reparto speciale del Corpo di spedizione francese, che entusiasmati dal valore dei fanti piumati nella battaglia del fiume Cernaia, offrirono il loro copricapo in segno di ammirazione. Fu un massacro. I russi vennero sconfitti e la guerra finì. Ancora dal racconto dei fascisti “In detto giorno i tedeschi, svisando una manifestazione di carattere primaverile (festa dei fiori) cercarono di dare ad essa il carattere di una cerimonia pangermanista ed irredentista, e col pretesto di una mostra campionaria speravano di trarre da essa l’occasione per un moto rivoluzionario. Il fascismo bolzanino” composto non da tirolesi, ma da italiani portati dal Regno d’Italia nell’Alto Adige - era severamente vietato chiamarlo Sud Tirolo - che s’erano subito inscritti al fascio. Il già capitano degli Arditi Starace, “saputo il retroscena della festa dei fiori, provvide tosto alla contro offensiva facendo affluire a Bolzano squadre d’azione di Verona, Brescia e Trento. Giunti con i treni del mattino, i fascisti si divisero in vari gruppi all’interno della città. Divelsero ed abbatterono dapprima stemmi e segni del passato impero”, incontrandosi quindi con il corteo che procedeva, banda in testa, in costume tirolese ed “al canto di inni austriaci, con grida ostili all’Italia”. Certo, festa dei fiori, ma anche un appuntamento politico o meglio, un richiamo alla Heimat perduta. Appunto in quella domenica, a nord del Brennero, si votava per un referendum che, contro quanto previsto dai trattati di pace, chiedeva l'annessione dell'Austria alla Germania. Ovvia la preoccupazione degli italiani per i riflessi irredentistici che poteva avere in Alto Adige, dove un plebiscito a favore dell'unificazione di tutti i tedeschi avrebbe ridato forza a chi chiedeva di rivedere il confine del Brennero. Per i fascisti, in particolare, il corteo in abiti tirolesi previsto a Bolzano proprio quel giorno non era da considerarsi un caso, ma una provocazione politica di segno “pangermanista”.

Nessuno in quell’epoca lo poteva sapere, ma giù nel 1914 quel grande personaggio che fu Gaetano Salvemini scrivendo a Cesare Battisti per chiedergli chi fosse Ettore Tolomei e perché chiedesse con insistenza di includere l’Alto Adige nelle richieste del Regno d’Italia per restare neutrale in quella guerra che era già un’enorme strage chiedeva: “Credi che la necessità miliare del confine al Brennero sia tale da doverci far affrontare le noie e i pericoli dell’irredentismo tedesco?” L’ombra dell’irredentismo tedesco che incupì nei decenni successivi la convivenza fra Italia ed Austria indusse il fascio di combattimento di Bolzano ad organizzare per lo stesso giorno una manifestazione d'italianità contro le pretese tirolesi su Bolzano, “estrema sentinella della Patria”. Che andava difesa ad ogni costo. “Tutto precipitò con la rottura di una lapide all’ex Hotel Kaiserkrone che ricordava la permanenza dei Reali d’Austria, ad opera di Stefano Bertolazzi e Giovanni Compagnoni [Si aggiunsero] le urla di provocazione [partite] dal corteo tedesco che sopraggiungeva dalla piazza della Frutta”. I fascisti riposero con il grido di assalto “A noi”, e secondo un’altra ricostruzione narrata a Brescia da un uomo che diceva di aver partecipato alla Marcia su Roma, da uno dei canti degli Arditi passati al fascismo poche settimane dopo la fine della Grande Guerra: quello di Giovinezza la canzone più diffusa nel ventennio al cui clima politico rimase legata. La sua musica, tuttavia, era di molto antecedente al regime fascista ed era stata creata per tutt'altro scopo: era stata composta, da Giuseppe Blanc nel 1909 per accompagnare i versi di un inno goliardico, le cui parole, intrise di gaiezza e nostalgia, erano state scritte da Nino Oxilia sotto il titolo di “Il commiato” più nota come “Inno dei laureandi”. Con testi ogni volta diversi, il brano musicale costituì dapprima la base per l'inno degli Arditi durante la Grande Guerra, poi quello degli squadristi e, infine, inno trionfale del Partito Nazionale Fascista. E il canto diventava grido alla strofa, da ripetersi tre volte: “Nostra unica bandiera - sei di un unico colore - sei una fiamma tutta nera - che divampa in ogni cuore”. Continua lo scritto “Storia del fascismo bresciano”: “L’urlo fu accolto da revolverate sparate dalla parte avversa, alle quali le Camicie Nere rispondevano con altrettante revolverate ed infine, vista la preponderanza dei tedeschi, lanciando alcune bombe a mano”.

A in questo capoverso ci sono due errori. I tirolesi non usarono le armi perché il corteo era sorvegliato dai Carabinieri Reali e dalle Guardie Regie e le Camicie Nere vennero formate l’anno successivo. Fino al 1922 i fascisti “per disposizioni accuratissime, indossavano berretti, giacche eleganti, cravatte svolazzanti e sotto le giacche tenevano bastoni e nascoste le rivoltelle”. Ancora dal citato libro: “Dopo il lancio delle bombe a mano il corteo tirolese si sciolse con un fuggi-fuggi generale mentre un morto, un maestro di banda, rimaneva sul terreno. Anche da parte dei fascisti vi erano alcuni più o meno feriti gravemente”, ma i nomi dei feriti a Bolzano non sono citati, mentre lo sono quanti rimasero colpiti più o meno gravemente negli scontri del 28 aprile a Porta Garibaldi in quel di MiIano, poi il Primo Maggio a Ghedi, Rovato, Lovere. Insomma in tutti i luoghi dove i fascisti si presentavano per scontrarsi con le guardie rosse. A documentare la giornata dei fascisti a Bolzano ci sono sette fotografie, una enormità per quell’epoca dove le macchina fotografica difficile da maneggiare era costosa quindi rarissima. Le foto vennero scattate da Gianni Colombini, sono di piccolo formato. Una rappresenta Piazza Walther con la statua di Walther von der Vogelweide e la più grande mostra la folla al funerale di Franz Innerhofer di Marlengo. Due le didascalie. “Bolzano, 24 Aprile 1921, alcune scene dell’adunata tedesca anti-italiana” e l’altra “Credaro, Governatore d’Italia partecipa ufficialmente a Bolzano ad un funerale di protesta contro l’Italia, pochi giorni dopo la spedizione fascista!” .

Ma i fascisti erano rimasti impressionati dalla massa di gente che aveva accompagnato il trasferimento della salma del maestro da Bolzano a Marlengo. Gli Schützen nella loro uniforme davanti al carro funebre tirato da cavalli neri con pennacchi neri anche quelli e poi la massa a marciare compatta e Luigi Credaro scortato da gendarmi “con l’elmo chiodato” che aveva risvegliato antichi ricordi, definiti “tragici” nel citato libro che è una testimonianza della radici del fascismo. Al corteo funebre avevano partecipato tutti i partiti democratici sudtirolesi e migliaia di persone dei tre gruppi linguistici: tedesco, ladino, italiano. Insomma, la prima - e purtroppo l’ultima - manifestazione antifascista. Il 20 luglio del 1919 Credaro era stato nominato Commissario Generale Civile della Venezia Tridentina, ossia la suprema autorità del Trentino-Alto Adige che stava per essere formalmente annesso all’Italia. Quel funerale divenuto corteo antifascista sorprese Benito Mussolini che da qualche tempo intendeva non italianizzare, ma fascistizzare l’Alto Adige e così nel suo primo discorso alla Camera, quello del Primo Giugno 1921 affrontò i “fatti di Bolzano” con termini molto chiari. “La storia della nostra politica nell’Alto Adige è quanto di più miserando e lacrimevole si possa immaginare. Governatore della Venezia Tridentina è l’on. Credaro, il quale ha appena i numeri per governare con discreta sufficienza un asilo infantile, non una regione popolata da due razze in antico contrasto. Suo superiore diretto è il senatore Ernesto Salata, uomo perniciosissimo alla causa italiana, la cui politica criminale ha dato il collegio elettorale di Gorizia nelle mani degli Sloveni e quello dell’Alto Adige nella mani del Deutscher Verband. (…) Il 24 aprile avvenne il primo urto dei fascisti con la polizia civica di Bolzano presentatasi munita dell’elmo a chiodo. Scoppia una bomba fascista. Di quell’atto assumo la mia parte di responsabilità morale. (…) Poiché il governo Giolitti è responsabile della miserabile politica seguita da Francesco Salata (giornalista al “Piccolo” di Trieste, nda) e da Credaro nell’Alto Adige, votiamo contro di lui. Ma dichiariamo ai deputati tedeschi qui presenti che al Brennero ci siamo e resteremo a qualunque costo”. Da ricordare che il nome “Venezia Tridentina” venne utilizzato per indicare i territori del Tirolo cisalpino (Alto Adige e Trentino) annessi al Regno d’Italia in seguito al trattato di Saint-Germain del 1919. Il toponimo fu coniato dal glottologo Graziadio Isaia Ascoli nel 1863, e avrebbe dovuto essere utilizzato nel 1898 anche da Cesare Battisti e da Giovanni Battista Trener quando fondarono la rivista scientifica che avrebbe dovuto chiamarsi Venezia Tridentina. Il governo austriaco censurò quel nome e così venne utilizzando il più neutrale “Tridentum”.

Cominciava anche da Borghetto al Brennero la furia fascista, l’incapacità dello Stato liberale di fronteggiarla perché le Forze Armate parteggiavano per i fascisti. I responsabili dell’omicidio di Innerhofer rimasero impuniti e quel che è peggio, quando finita la seconda guerra mondiale, la democrazia non fu in grado - o non volle - risarcire la vedova. Da ricordare, in vero con un senso di vergogna, che solo nel 2011 venne intitolata alla prima vittima del fascismo, una piazza nel centro di Bolzano. Passano le ore, il cadavere - tutti sono convinti che Matteotti sia stato ucciso e il corpo sepolto chissà dove - e sui giornali non asserviti al fascismo aumentano le accuse a quello che, ma nessuno se ne rese conto, cominciava a diventare una dittatura. Cresce il dibattito politico; si cercano le cause di un gesto estremo e si cominciano a rileggere i verbali dell’atto di accusa di Matteotti cercando di ricostruire cosa avrebbe detto nel preannunciato intervento in Parlamento. Si disse che ci sarebbero state anche accuse di sfacciate protezioni accordate nel 1915 a determinati gruppi industriali - finita la guerra molti “padroni delle ferriere” vennero chiamati “pescecani” da quanti, nelle trincee, avevano scoperto le colossali ruberie a cominciare dagli indumenti e dal cibo - che continuavano a premere sul nuovo Governo fascista. Forse tracce di quelle accuse erano nella corposa busta che Matteotti aveva al momento del sequestro e che non venne più trovata. Intanto Dumini appena entrato in carcere, confermò ai giudici le accuse del citato memoriale di Filippelli. In un articolo intitolato “Le ripercussioni del delitto di Roma sul Governo - e sulla maggioranza parlamentare - Il grido della pubblica coscienza”, pezzo ispirato da Degasperi che nel Transatlantico, il grande salone rettangolare in stile liberty al primo piano di Montecitorio, tradizionale luogo di incontro tra i deputati, cominciò ad occuparsi di quel pretoriano del Duce. Si racconta nella massa di notizie cresciute attorno al personaggio destinato a diventare l’uomo chiave, e spesso sottochiave, in questa sanguinosa vicenda. Si stabilì che era subito tornato al Viminale ad omicidio compiuto dove incontrò Giovanni Marinelli e secondo molte versioni in vero incontrollabili, raccontò cosa e come era accaduto. Scrisse Indro Montanelli il giornalista che ebbe la fortuna di sentire i racconti di quanti, sia pure in parte, avevano vissuto quel tempo che vide la pietra tombale della democrazia: “Non sappiamo come Marinelli accolse la notizia, non sappiamo come la riportò a Mussolini, non sappiamo come questi reagì. C’ è chi dice che Marinelli uscì dal colloquio piangendo come un bambino duramente castigato. Ma non sono che voci”. Aggiunge Montanelli. “Torniamo ai fatti accertati. La notizia della scomparsa di Matteotti fa data naturalmente la notte stessa ai suoi amici dalla moglie sgomenta” che non lo aveva visto rincasare, né quelli di Montecitorio lo avevano notato arrivare. Sulla stampa trapelò solo il giorno12, quando già la Camera tumultuante chiamava Mussolini a fornire spiegazioni.

Il Duce dichiarò di essere all’oscuro di tutto e di avere già impartito rigorosi ordini di ricerca alla polizia, compreso quelle di frontiere. Sapeva invece ogni cosa, meno il bosco dove era sepolto il cadavere perché non riuscivano più a ubicarlo nemmeno gli autori del delitto; e accennava alla frontiera per dar credito ad una voce che indicava Matteotti per espatriato clandestinamente. L’opposizione accolse le sue dichiarazioni con grida e tumulti e Mussolini venne accusato di voler coprire le responsabilità del criminali. Si era già capito che Matteotti era stato ucciso e per mano fascista, perché il numero di targa dell’automobile aveva permesso di risalire immediatamente al Filippelli direttore del “Corriere italiano” di stampo fascista e noto come camerata di Dumini. Tempi difficili per l’uomo che si definiva pluriomicida. “Il nuovo Trentino” pubblica un comunicato della segreteria dei Fasci italiani nel quale, sconfessandolo, si legge: “Dumini non fa parte di un ufficio segreto istituito presso questa segreteria generale e che lo stesso signore avrebbe detto di aver ricevuto un delicato incarico e cioè quello di controbattere le violenze dei sovversivi. Le due notizie sono prive di qualsiasi fondamento: presso questa segreteria non è mai esistito un ufficio segreto, mai Dumini è stato addetto agli uffici di questa segreteria e tutti sanno che le violenze non sono mai state controbattute e che i morti sono stati sempre fascisti”. Ma proprio a fianco di quell’articolo che prende, nette, le distanze dal “signor Dumini” che non è più chiamato camerata ma signore, ecco uno intitolato “Le vicende triestine”: A Trieste “era stata scoperta e sequestrata una grossa quantità di armi destinata alla Jugoslavia ed è stato operato l’arresto di alcuni individui che si ritengono coinvolti nella losca faccenda. Si tratta nientemeno che il carico di un milione di fucili, trentamila mitragliatrici e 24 batterie da montagna che se non fossero intervenuti i CC.RR (Carabinieri Reali) a scoprire il losco affare, sarebbe stato traferito a Belgrado”. Ecco il giornale, riprendendo un telegramma della “Stefani” che si dilunga sulla gravità dell’episodio “antipatriottico e losco, che avrebbe contribuito a dotare una Potenza straniera, non certo troppo amica dell’Italia, di una così ingente quantità di armi. Tutto era già stato caricato sul piroscafo Vulcania in procinto di salpare da Pola per un porto jugoslavo”. Indignazione, perquisizioni, scoperta di una enorme somma di danaro, arresto di alcuni figuri fra i quali “tale Bianchi, ma che è risultato chiamarsi Dumini, ex fascista fiorentino”. Quel giorno il giornale di Trento pubblicava un articolo intitolato “La figura di Dumini” raccontando “che la giustizia ebbe ad occuparsi lungamente di lui. Da qualche mese frequenta assiduamente gli ambienti giornalistici, si vede molto spesso nella tribuna della stampa a Montecitorio dove si reca, pur non avendo la tessera necessaria” e l’articolo aggiunge che i giornalisti che frequentano il Viminale, “lo vedono sempre nell’ufficio stampa della presidenza del Consiglio, cui è addetto”. Anche i giornali di fede e penna fascista si indignano. Certo “Il popolo d’Italia” che aveva nella testata la scritta “giornale fondato da Benito Mussolini”, aveva intitola a caratteri di scatola “Dopo la scomparsa dell’on. Matteotti - la nobile e commossa dichiarazione - della Maggioranza e del Governo alla Camera”, fa i nomi dei responsabili del rapimento, ma altri quotidiani fascisti che - lo scrive sempre “Il nuovo Trentino” - hanno mostrato di accorgersi del caso Matteotti con molto ritardo. Si legge su “Il Brennero”: “Per il fascismo questo delitto è un formidabile monito. Bisogna vegliare scrupolosamente gli uomini che sono vicini ai nostri capi. Abbiamo battuto più volte sulla necessità di una selezione che dovremmo fare internamente, senza clamori e senza esitazioni. Sono recenti i nostri attacchi ad un gruppo di speculatori che potrebbero recare immensi danni al Fascismo. Un fatto: uno degli arrestati perché presunto complice del ratto di Matteotti, lo avevamo già definito indisciplinato, disgregatore, truffatore. Ma la nostra protesta cadde nel vuoto”. Si susseguono i commenti dei più autorevoli giornalisti dell’epoca, mentre aumentano le tirature e si susseguono le edizioni speciali. Si legge nell’editoriale a firma Mikròs della “Unità Cattolica”: “Quando sarà fatta giustizia degli assassini, bisognerà che il senno di Mussolini faccia sommaria giustizia delle passioni che generano questa delinquenza barbara. E i delinquenti sono anche verbali, anche senz’armi materiali, ma micidialissimi malfattori che sempre si annidano all’ombra dei vincitori”. Dal canto suo il “Giornale d’Italia” scrive: “L’onorevole Mussolini nel suo commosso discorso, nel quale vibrò tanta umanità, richiamò opportunamente il suo recente intervento pacificatore in Parlamento. Ma vogliamo dirgli francamente, che nei rami fascisti non si parla e non si scrive con altrettanta moderazione. Si adopera ancora un linguaggio violentissimo, nel quale si minacciano vie di fatto e violenze di ogni specie. Bisognerà anche ghigliottinare [sic!] la violenza verbale e scritta. Bisogna finirla di parlare di rivoluzione, di piombo e baionette”. Scrive ancora Degasperi: “Intanto un alone va formandosi attorno al delitto; cose che prima si mormoravano sottovoce attorno a sospetti di scandalismo, si leggono stampate nei giornali. Si tratta di accuse relative alle tariffe doganali protezionistiche e sfacciate protezioni accordate a determinati gruppi industriali. Si scrive sulle troppe rapide fortune maturate all’ombra di Palazzo Chigi e del Viminale, con fenomeni di corruzione. Filippelli, direttore del Corriere Italiano, impresa giornalistica che si è fatta in questi mesi una reclame scandalosa, conduce a Roma una vita lussuosa, con un intero appartamento all’ Hotel Moderno, il possesso di cinque automobili. Ecco il prototipo degli arricchiti della Marcia su Roma. E il Dumini? Nel leggere oggi la sua fedina penale, c’è da allibire senza aggiungere che altro sangue si è lavato con l’amnistia.

Fa il pendolo fa Roma e Milano, ha un recapito al Viminale presso il capo dell’ufficio stampa; va, scompare, ritorna dall’estero. Ecco il prototipo del sicarista. Di queste figure minori, nella penombra del delitto, è tutto un brulicare”. Alfredo Rocco, presidente della Camera, si reca a confortare la moglie e la madre del parlamentare rapito. Accenna sull’ ultima ipotesi: il corpo sarebbe stato gettato nel lago di Vico e mentre incontra le due donne di Matteotti, assiste da una finestra ad “una improvvisata e grande dimostrazione di simpatia sotto la casa dell’onorevole.” Ormai tutti parlano apertamente di delitto e le “Ultime della Notte” de “Il nuovo Trentino”, con il titolo “Il cadavere di Matteotti non è stato ancora trovato - E’ in fondo al lago di Vico” annuncia un altro capitolo sulle ricerche. Entta nella scena delle indagini Bruno Buozzi, sindacalista, operaio, poi alla guida del Partito Socialista Unitario, l’uomo che nell’ agosto del 1917 si era mosso affinché la rivolta popolare a Torino, soprattutto delle donne contro i massacri sul Carso, non degenerasse in un'insurrezione senza uno sbocco politico. Quando Mussolini era diventato Presidente del Consiglio, ma non aveva ancora la maggioranza alla Camera, aveva chiesto i pieni poteri, Buozzi in Parlamento aveva svolto un coraggioso intervento: “C’è una sola dittatura necessaria in Italia, onorevole Mussolini: la vostra sui fascisti, per indurli alla disciplina. E voi non dovete cercare di indorare questa dittatura come una pillola, con i pieni poteri che ci chiedete. Io sono fra quelli che credono, salvo complicazioni internazionali, al superamento relativamente sollecito dell’attuale crisi finanziaria e senza provvedimenti di eccezione. Desiderosi quindi che non si esagerasse né nel prospettare la nostra situazione né nell’enunciare miracoli. I bilanci non sono squadre di azione. Si tratta di materia nella quale non bastano le affermazioni e gli ordini di stile militare””. Ma dopo la Marcia su Roma, non ci sarà più nulla da fare. Gli iscritti ai sindacati erano già ridotti al lumicino; il regime riconosceva solo ai sindacati fascisti l’esclusiva della contrattazione con le confederazioni degli industriali e degli agricoltori. Con il consolidamento politico del Duce aumentarono le violenze fasciste; ci fu un vero e proprio accanimento contro la Fiom e la Cgl; le loro sedi vennero devastate, soppresse, sciolte. Dilagarono gli arresti e le condanne. Si preannunciarono leggi “fascistissime”, con l’istituzione della pena di morte, con la sospensione di tutti i partiti politici non fascisti, con l’istituzione di tribunali speciali. Bruno Buozzi, che si era rifugiato a Torus, rientrato clandestinamente a Parigi per far visita alla figlia Ornella in occasione della nascita della prima nipote, venne arrestato il 10 marzo 1941 dalla Gestapo – la Francia era stata occupata dalle truppe tedeschi - e portato al carcere della Santé dove incontrò Giuseppe Di Vittorio con cui ebbe un primo importante scambio di idee per il dopoguerra e per la ricostituzione del sindacato libero e democratico. Ma i tedeschi, padroni dell’Italia dopo l’8 Settembre del 1943, lo trasferiscono nella famigerata prigione di via Tasso a Roma. È il 13 aprile del 1944 e risulteranno tutti vani i tentativi di liberarlo. Nella notte tra il 3 e il 4 giugno, mentre Roma viene liberata dalle forze alleate, caricato su un camion tedesco con altri tredici antifascisti, a pochi chilometri da Roma, in località La Storta sulla via Cassia, viene assassinato con gli altri compagni da un gruppo di nazisti per ordine del capitano delle SS iol famigerato Erich Priebke. Nella Capitale liberata, il “Patto di Roma” per l’unità sindacale, così ostinatamente voluto da Buozzi, nasce pochi giorni più tardi, anche se, in omaggio al sindacalista assassinato, porta la data del 3 giugno 1944.

(3. continua)

 

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