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Liliana Segre: storia di una sopravvissuta/2

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di Luigi Sardi

Da quell’antro oscuro sotto la Stazione di Milano, Liliana fu deportata a 13 anni, chiusa in un carro merci dove il freddo era totale, diretto ad Auschwitz. L’ orrore del carcere di San Vittore era stato la penultima tappa prima del trasferimento sul retro della stazione a bordo di autocarri con i cassoni coperti da teli. All’ingresso di quel binario oggi si legge a lettere cubitali la scritta “indifferenza” e poi, incisi, i nomi di quelli che non sono tornati. Da ricordare che il 28 ottobre del 1922 migliaia di fascisti marciarono su Roma minacciando la presa del potere con la violenza. E’ la “Marcia su Roma” di gente armata, quasi tutti reduci dalla Grande Guerra, con il re Vittorio Emanuele III a incaricare Mussolini di formare un nuovo governo.

Era il 30 ottobre, l’inizio di quella passata alla storia come Era Fascista. Il 16 novembre sempre del Ventidue, Mussolini si recò alla Camera dei deputati per presentare la lista dei ministri E pronunciò i “discorso del bivacco”, così definito a causa del celebre passo: “Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo, ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto”. Lo volle subito dopo. Rimase al potere fino alla notte del 25 luglio del 1943. Dunque vent’anni, appunto “il ventennio”. Ancora su Fazio e Segre. Il coro del teatro alla Scala è schierato nel monumentale atrio della stazione per l’evento televisivo realizzato nel Giorno della Memoria. Dopo i ricordi della Senatrice è uno dei momenti più suggestivi.

Ecco il sublime canto di “va pensiero”, ineffabile melodia che racconta l’angoscia del popolo ebreo oppresso, prigioniero in Babilonia, ma sorretto dalla speranza di risorgere. In quel canto è mirabilmente dipinta l’angoscia del popolo italiano caduto in soggezione dello straniero e anelante alla riscossa. Siamo nel marzo del 1842, agli albori del Risorgimento e Giuseppe Verdi dedica “il Nabucco” alla “serenissima Arciduchessa Adelaide d’Austria”. Correvano ancora i tempi in cui per un compositore ottenere che un potente accettasse la dedica di un’opera, valeva dimostrare in pubblico il riconoscimento al suo valore. Certamente l’artista fieramente Italiano, cercava la fama, ma era convinto che arte e cultura erano superiori alle controversie politiche, che separavano in maniera sempre più netta l’Austria di Francesco Giuseppe dagli italici aneliti del Risorgimento.. Ma ecco ancora Liliana Segre raccontare i momenti concitati che precedettero la sua deportazione, indicare la Pietra d’Inciampo dedicata al padre Alberto morto nel campo di sterminio e incastonata davanti a casa Segre sulla soglia del numero 55 di Corso Magenta in quel di Milano, dove nel gennaio del 2019 non ci sono state parole, ma solo la posa delle pietre dedicate ai nonni di Liliana, Giuseppe Segre e Olga Löwy per ricordare le responsabilità di un passato segnato dalle infami persecuzioni antiebraiche.

Lì venne rapita la fanciullezza di Liliana. Lì mandarono a morte suo padre e i suoi nonni, galantuomini però ebrei, italiani ma abbandonati dai compatriotti e dai coinquilini con i quali, fino alla sciagurata giornata delle leggi razziali, probabilmente avevano avuto sereni rapporti. Eccola indicare la scuola elementare di via Ruffini dalla quale nell’ottobre del 1938 fu espulsa per il dettato delle leggi razziali, fino al carcere di San Vittore, penultima tappa di quel viaggio con destinazione l’inferno e dalla quale quel 30 gennaio del 1944 venne prelevata per essere condotta su un vagone merci parcheggiato nei sotterranei della stazione. Era quel binario già destinato allo smistamento della posta; quando un carro era pieno, veniva sollevato per essere agganciato ai vari convogli in partenza e il binomio ferrovia-posta era uno degli orgogli del fascismo.

Eppure in quell’enorme stazione i ferrovieri era davvero tanti. Molti di loro erano socialisti, quindi antifascisti; certo, a decine erano militarizzati e “dovevano obbedire agli ordini” dei militi delle SS che erano pochi, stavano distanti da quella folla di “razza inferiore” limitandosi ad impartire ordini e controllare che i vagoni, una volta pieni, venissero serrati a dovere. E nel carcere di Varese, Como, Milano dove quella bimba era stata rinchiusa, i “secondini” - così all’epoca si chiamavamo quelli che oggi sono gli agenti della Penitenziaria - magari non erano fascisti, però terrorizzati dai tedeschi. Che dominavano in quelle prigioni dove italiani in camicia nera facevano da servitori ai padroni in camicia bruna.. Tra il settembre 1943 e l’aprile 1945 il carcere di San Vittore era controllato dalle SS. Occupata Milano il 12 settembre 1943 e stabilito il quartier generale della Gestapo nell’albergo Regina&Metropoli vicino al Duomo, le SS presero possesso della prigione gestendo tre dei sei raggi: il IV e il VI destinato ai prigionieri politici e il V destinato agli ebrei conosciuto come «il girone degli impiccati», il «girone infernale» e il «raggio maledetto». Sarà il luogo di raccolta per la deportazione degli ebrei catturati nelle città del Nord come Genova e Torino e di quelli presi dai militi fascisti che sorvegliavano il confine con la Svizzera. La ricercatrice e scrittrice Roberta Cairoli afferma che il primo «responsabile del settore tedesco del carcere fu, dal settembre 1943, Helmuth Klemm, sostituito poi dal vice maresciallo Leander Klimsa; gli subentrò il caporalmaggiore Franz Staltmayer, detto "la belva" o "il porcaro", che girava nella prigione armato di frustino e con un cane lupo, che aizzava contro i detenuti. Aiutavano i tedeschi, gli italiani Manlio Melli e Dante Colombo agenti dell’Ufficio politico investigativo (Upi) della Guardia Nazionale Repubblicana comandati dal maggiore Ferdinando Bossi. Il regolamento del carcere era durissimo, le condizioni igieniche drammatiche. Agli ebrei erano negati i pochi diritti concessi agli altri prigionieri, ovvero l’ora d’aria, l’assistenza sanitaria, la possibilità di ricevere lettere e pacchi e di acquistare generi alimentari allo spaccio del carcere.

Gli interrogatori degli arrestati erano condotti in uno stanzone a pian terreno, detto il "refettorio"; sevizie di ogni genere venivano inflitte soprattutto sugli ebrei. Furono 15 i trasporti degli ebrei da San Vittore ad Auschwitz e tutti partirono dal Binario 21; il primo il 6 dicembre 1943, l’ultimo il 15 gennaio 1945 che si fermò a Bolzano perché oltre Brennero si era capito che la guerra era perduta. A Milano “qualche italiano cercò di rendere meno drammatiche le condizioni dei detenuti: da suor Enrichetta Alfieri ai medici antifascisti Gatti e Giardina, che riuscirono a salvare qualche detenuto dalla deportazione e favorirono la fuga dei politici”. Enrichetta Alfieri, al secolo Maria Angela Domenica adesso venerata come beata, è stata una religiosa della congregazione delle suore della Carità di santa Giovanna Antida Thouret. Si era guadagnata gli appellativi di "Mamma di San Vittore" e "Angelo di San Vittore" per il suo lungo lavoro nella grande prigione di Milano. Papa Benedetto XVI approvò la beatificazione e delegò il cardinale Angelo Amato a presiedere la celebrazione nel Duomo di Milano il 26 giugno 2011. Da San Vittore, i Gruppi di Azione Patriottica (i Gap), fecero evadere ebrei e detenuti politici. Venivano trasferiti all’ospedale Niguarda con diagnosi di finte febbri contagiose, poi grazie ad infermiere come Maria Peron, venivano forniti di abiti civili e aiutati a fuggire. Luigi Borgomaneri, autore di un saggio sul capo della Gestapo Theodor Saeveck e consulente nel processo a carico dell'ex capitano delle SS tedesche, fornisce diverse testimonianze su ciò che accadeva all'interno di San Vittore dal 1943 al 1945. Dei molti detenuti entrati e usciti dal "braccio tedesco" di San Vittore, si trova testimonianza nei registri di iscrizione (libri matricola) che sono custoditi presso diversi istituti di conservazione.

E’ documentata la detenzione della Segre che era una bambina, con il padre Alberto prima di venire deportati ad Auschwitz; lei ha ricordato il grande calore e la straordinaria umanità dimostrata dai reclusi di San Vittore soprattutto quando, dopo il loro "soggiorno" a San Vittore, venne il tempo di essere avviati al Binario 21 per la deportazione. “I detenuti di San Vittore furono gli unici umani che incontrammo in quei tristi giorni. In 605 venimmo chiamati per salire sui vagoni blindati ed andare ad Auschwitz. I carcerati vedendoci partire e sapendo che eravamo innocenti ci salutarono lanciandoci quel poco che avevano: arance, mele, qualche sciarpa e soprattutto le loro benedizioni che ci furono di grande conforto e che io ancora oggi ricordo con grande affetto". Come si legge su “la Repubblica” del 21 gennaio 2020. Ecco, l’esperienza personale si fa collettiva in questo ricordo incancellabile perché marchiato sulla pelle, che si cerca di imprimere nella memoria di chi non c’era, di chi è venuto dopo, di chi nega e continua a negare l’esistenza dei Lager come luogo di distruzione dell’umanità, di chi minimizza, di chi era dall’ altra parte, di chi vide e finse di non vedere. Eccola camminare in quel sotterraneo nelle viscere della Stazione Centrale di Milano, a pochi metri dal via vai quotidiano e totalmente inconsapevole, dei viaggiatori. Un cappotto scuro e quell’uomo - anzi quel galantuomo - che sorregge la protagonista di un racconto civile, collettivo e personale. Un’accusa al cinismo di quegli anni passati; all’indifferenza di oggi di quanti, magari senza accorgersi, calpestano la storia. “Per anni ci siamo chiesti perché nessuno si mise davanti al treno. Quando uno è un bambino e non ha nulla, a qualche cosa si deve attaccare. Nelle prime notti ad Auschwitz notai una stellina che mi sembrava speciale, la guardavo e dicevo: finché tu brilli anche io sarò viva. E per me quella stellina non si è mai spenta”. Il fischio acuto del capostazione ci riporta sotto le volte della monumentale stazione fra i treni, le “frecce rosse” e quelle di “argento” pronte a partire verso mille altre stazioni e lo stupore dei passeggeri di fronte a quell’orchestra, a quel coro che hanno fatto risuonare il “Pensiero” verdiano con una grazia speciale, seppure in un luogo che fu di dolore e di ingiustizia esaltando le parole toccanti e umanissime di Lilina Segre.

Era stata arrestata nel dicembre del 1943 a Selvetta di Viggiù in provincia di Varese quando aveva 13 anni. Dopo sei giorni di carcere a Varese venne trasferita a Como e poi a Milano, nella prigione di San Vittore dove fu detenuta per quaranta giorni. Quegli “apostoli del male” in camicia nera la imprigionarono come una criminale, che era solo una bambina ma ebrea. Il 30 gennaio venne portata nel sotterraneo della stazione di Milano Centrale al tragico Binario 21 per venire trasferita al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau dove giunse dopo sette giorni di viaggio, inchiavardata in un carro merci. Alla discesa dal vagone, coloro che erano già nel campo consigliavano ai più giovani di invecchiarsi di qualche anno per non essere subito portati nelle camere a gas, perché i minori di 15 anni venivano uccisi immediatamente. Anche Simone Veil Jacob nata a Nizza, prima donna eletta Presidente al Parlamento europeo, si salvò mentendo sull’ età. Era stata presa in Francia il 30 marzo del 1944; le incisero sulla pelle il numero 78561. Sopravvissuta, ha dedicato tutta la vita alla ricerca della pace. Raccontava: “Mio padre e mio fratello non li ho più rivisti. Io, mia madre e le mie sorelle siamo state deportate al campo di sterminio”. Lei ne uscì viva. Appunto Lilliana, come altre bambine, venne subito separata dal padre, che non rivide più - quel papà morì il 27 aprile 1944 - e il 18 maggio 1944 anche i suoi nonni paterni furono arrestati a Inverigo in provincia di Como e dopo qualche settimana vennero deportati nel tragico campo per essere uccisi nelle camere a gas il giorno stesso dell'arrivo. Era il 30 giugno del 1944. Quella la data della loro morte. Si può solo rabbrividire immaginando una bambina di tredici anni nel profondo squallore di un carcere negli anni Quaranta; l’orrore nel gelo, nella fame, nella sete, nel terrore, nella sporcizia di quel viaggio verso l’ignoto, stipati in un carro senza finestrini con un buco nel pavimento come latrina e poi il Lager, quel Lager dove finiva l’umanità e dove Gesù Cristo non ha mai dato un’occhiata. “Io Dio l’ho seppellito ad Auschwit, penso a lui con disgusto. Onnipotente come lo presentano, non ha fatto nulla” disse Oleg Mandic, croato di Abbazia dove era nato nel 1933. Portato a Birkenau che aveva 12 anni, gli venne impresso sull’avambraccio sinistro il numero 189488. E’ entrato nella storia come l’ultimo bambino a lasciare vivo quel Lager, in braccio ad un soldato russo che lo aveva trovato in fondo al braccio 10.

Giornalista, raccontò di aver visto Menghele, il “dottor Morte”, lo sciagurato che si era messo in testa di studiare a modo suo il Dna dei gemelli e fra i suoi scritti c’è una frase che colpisce: “Grazie ad Auschwitz ho avuto una vita bellissima: Perché? Per la certezza che a soli12 anni avevo sperimentato il male assoluto; il resto della mia esistenza non poteva che essere migliore”. Durante la prigionia Liliana Segre subì tre selezioni in una delle quali perse un'amica che aveva incontrato nel campo. Sopravvisse: una fortuna fra gli stenti fino al 27 gennaio quando i soldati dell’Armata Rossa che avanzavano verso Berlino entrarono in quell’ orrore. Dei 776 bambini italiani di età inferiore ai 14 anni che furono deportati ad Auschwitz, Liliana fu tra i 25 sopravvissuti. Tutti gli altri morirono di fatica, fame, terrore, percosse o asfissiati nei cameroni riempiti di gas.

(2. Continua)

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