Non solo Sloi: decenni di inquinamento dalle fabbriche di Trento

Aria irrespirabile, scarichi tossici nelle acque, e innumerevoli testimonianze: persino gli operai nelle attività vicine si sentivano male

di Luigi Sardi

E’ nella primavera del 1971 che Trento si scopre una città inquinata come Milano e Torino, se non in misura maggiore. Scoperta sorprendente per chi era abituato - e convinto - a considerare la nostra città invidiabile perché si respirava l’aria delle Dolomiti. Era stato il professor Giuseppe Barbareschi, anatomo patologo all’ Ospedale Santa Chiara che scendo una domenica pomeriggio dal Monte Bondone aveva fermato l’auto di un cronista dell’ “Alto Adige” per fargli notare da un punto panoramico come dalla Piana Rotaliana fin oltre Mattarello, la città fosse coperta e gravata da un nube densa e scura e fitta.

Da Mezzorona dove oggi c’è una prestigiosa cantina, si levavano i fumi della Sicedison mentre appena un poco più a nord di Torre Verde e di via Maccani c’erano i fumi della Elettrochimica Trentina, della Bitumi e Asfalti, della Prada ( non quella delle famose borsette, ma della naftalina ) e della Sloi mentre sovrana nella diffusione delle polveri sottili, comunque dense e apportatrici di silicosi interstiziale, c’era l’ Italcementi di PIedicastello con quelle due ciminiere che ancora si vedono. Da quei due camini, giorno e notte, estate e inverno, a Natale come a Pasqua eruttava quella polvere biancastra che se una minima brezza soffiava da Nord la si vedeva fino a Volano e se tirava da Sud si disperdeva nella Rotaliana. E poi nell’ elenco dei fumi c’era la Carbochimica. Insomma, con il comune denominatore “chimica”, Elettro e Carbo avevano un’altra caratteristica: l’inquinamento da idrocarburi che, forse, è il meno impegnativo di risolvere. Si dovrebbe, e qui il condizionale è d’obbligo per via di diverse scuole di pensiero ecologico, raccogliere il terriccio, bruciarlo magari in un cementificio mentre la terra asportata dovrebbe venire sostituita con terra pulita. Facile? Forse. Di certo costoso.

Aveva fatto scalpore, ancora prima dell’alluvione del 3 novembre del 1966 un articolo di Piero Agostini intitola “Odor di fumo - odor di ciminiere” che raccontava la difficile convivenza nella Piana Rotaliana , fra quel giardino vitato, vocato al Teroldego e la Sicedison, che non la si poteva certo annoverare fra gli stabilimenti utili alla salute della popolazione della Piana né dei grappoli dell’uva. I meno giovani ricorderanno quel semaforo che, in prossimità dello stabilimento, segnava rosso quando veniva scaricato un fumo scuro, denso, caldo mentre in città dall’andazzo dei fumi dell’Italcementi si traevano le previsioni del tempo: se le due colonne che eruttate, procedevano lente e ben separate per unirsi nella zona dei “pomari” – quelli fra Mattarello e Aldeno – ci sarebbero state giornate di sole e senza vento. Se invece salivano disordinatamente verso Nord sarebbe arrivata la pioggia portata dallo Scirocco. Insomma fumi, inquinamento, raffreddori, asma e malattie polmonari.

Già nella primavera di mezzo secolo fa, la città aveva cominciato a sensibilizzarsi di fronte a problemi prima sconosciuti. Ci si era accorti che la vita di ogni giorno era assediata dall’inquinamento, che le acque di torrenti, fiumi, laghi erano sempre più sporche ed erano state disastrate quelle del lago a Tovel dove per improvvida quanto fortemente voluta manovra, si era distrutto l’abitat del “glenodinium” di colore rosso sangue identificato da Vittorio Marchesoni sul finire dell’Ottocento. Poi erano ingombri di detriti il torrente Rabbies, la Fersina con i letto ancora strozzato dalla vegetazioni e che a due passi da un famosissimo rifugio alle Torri del Vajolet, c’era una vistosa quanto vasta discarica di lattine vuote. Insomma, i corsi d’acqua erano discariche; i residui più ingombranti, liquidi o solidi che fossero, venivano semplicemente gettati e nel migliore dei casi, sepolti.

Già in quella primavera ormai lontana nel tempo e nella memoria, si erano identificate nella città condizioni climatiche, metereologiche, orografiche, industriali e urbanistiche tali da suggerire l’adozione di particolari provvedimenti anti inquinamento perché , per esempio, i fumi della lavorazione della naftalina causavano gravi forme di allergia, perché i camini di uno stabilimento di Trento Nord eruttavano un fumo che imbrattava le automobili esposte sui piazzali dei concessionari, perché chi nuotava nel lago di Caldonazzo si poteva imbattere in escrementi semplicemente scaricati nelle acque. Su tutto, sovrano, lo spettro della Sloi. A documentare quella situazione c’è il 9 aprile del 1971 un articolo a tutta pagina sull’ “Alto Adige” del giornalista Mauro Lando che aveva affrontato l’inquinamento della Fossa degli Armanelli.

Quel rio, fino alla metà degli anni Trenta era caratterizzato da acque limpide, fresche, pulitissime usate per irrigare gli orti di Campotrentino. Ecco alcuni stralci di quell’articolo: “Accusano la Sloi di far uscire dal perimetro dello stabilimento un rivolo di morte che inquina ogni giorno, ogni ora la Fossa degli Armanelli, un corso d’acqua che scorre a lato della ferrovia e che una volta serviva per l’irrigazione dei campi.

Da anni, nell’acqua è scomparso ogni segno seppur minimo di vita. Pesci, rane ed altre forme di vita sono scomparsi e le acque sono diventate addirittura letali. Restano solo scarichi nauseabondi della fabbrica del piombo tetraetile e di irrigazione non è ormai più il caso di parlare. Il problema sembra allargarsi ed investe sempre più direttamente la salute dell’uomo e vi è una casa del gruppo di abitazioni che sorge presso il Foro Boario, che a detta del proprietario, il maestro Ezio Brunelli, è corrosa nelle fondamenta dagli scarichi della Sloi. Il corso d’acqua passa a brevissima distanza e nei non rari momenti di piena, allaga gli scantinati danneggiando le strutture portanti ed impregnando l’ambiente di fetida umidità”.

Ma ecco, sempre dall’articolo di Lando, la testimonianza di Luigi Angeli, agricoltore. “Afferma che la sua campagna, che si trova poco distante dal corso d’acqua, produce sempre meno. Così ha affidato ad un perito [agronomo] l’ incarico di cercare le prove che la Sloi distrugge la sua campagna perché prima che fosse costruita la Sloi”, cioè prima del 1939, “mio padre usava l’acqua della Fossa per l’irrigazione e mostra come il fango fuoriuscito dalla Sloi e depositato lungo il corso d’acqua sia alto più di un metro” e aggiunge che “talvolta vengono gli operai che con delle pale sollevano la melma per far scorrere via l’acqua altrimenti strariperebbe. Quando fanno questo lavoro indossano le maschere antigas mentre io, mia moglie i nostri figli respiriamo questi odori tutti i giorno”.

E c’è dalla voce di Alberto Mattedi il ricordo di suo padre Mario che nato nel 192 aveva lavorato alla Sloi con la mansione di addetto alla manutenzione dall’ 11 ottobre del 1971 fino a quel 14 luglio del 1978 che segnò la definitiva chiusura. Fra i documenti conservati da Mario Mattedi, uno datato 23 marzo 1977 si riferisce “alla lavorazione di materiali di recupero inquinati” e in particolare al “recupero di una lamiera di un ex distillatore, della misura di mm. 2600 con lo spessore di 5 mm. e del peso di 230 chili”. Spiegando dettagliatamente il costo del lavoro necessario per eseguire il recupero ( 187.600 lire ) dimostrava che è era molto più conveniente acquistare una lamiera nuova ( 63.60’0 lire ) dalla ditta Mondini aggiungendo che l’impresa incaricata di compiere l’operazione di bonifica della lamiera [evidentemente inquinata] aveva allontanato i quattro operai incaricati di compiere l’ intervento “causa ambiente inquinato. Questo per ribadire che tal lavori di recupero non ripagano certamente la salute delle persone, tantomeno quando i lavori suddetti risultano controproducenti”.

Con un triste “abbiamo sofferto” e “quanto abbiamo pianto”, Alberto Mattedi ricorda che suo padre era un “bonaccione ma affetto da improvvisi turbamenti soprattutto la sera” frase drammaticamente ricorrente fra i familiari dei lavoratori di via Maccani. Dai ricordi di Mario Mattedi affiora un altro episodio, quello di un giovanissimo operaio che per arrotondare la paga aveva accettato di farsi calare in una delle cisterne vuote per pulire, raschiandole, le pareti. Quindici o al massimo trenta minuti di permanenza, legato ad una corda e con in bocca il boccaglio di un lungo tubo che uscendo dalla botola, gli permetteva di respirare. Si sentì male, rimase molti mesi alla clinica delle malattie del lavoro di Padova. Restò invalido per il resto della vita.

Veleno nel perimetro dello stabilimento. Aria avvelenata al di là del solido muraglione di cinta. Tutt’ attorno odori più o meno forti a seconda delle brezze che, dettate dall’ Ora del Garda, caratterizzano la zona; quasi inesistenti gli interventi dei sindacati. Rarissimi quelli della politica

soprattutto quando la Sloi diede un lavoro ad alcuni di quegli italiani cacciati in massa dalla Libia subito dopo quel primo settembre del 1969, giorno in cui il giovane Gheddafi aveva conquistato il potere con un colpo di stato. Smistati in campi allestiti in tutta fretta in Campania, Sicilia, Puglia e Lombardia – in Libia avevano perso casa, lavoro, depositi bancari, attività commerciali ed imprenditoriali – quasi abbandonati dal Governo dell’ epoca, alcuni iscritti al Msi di Giorgio Almirante, trovarono lavoro alla Sloi. Quel 1969 era un anno molto difficile perché fra il settembre e il dicembre la “questione operaia “ era esplosa con forza che né imprenditori né operai avevano previsto. Erano in gioco il rinnovo di 32 contratti colletti di lavoro e oltre cinque milioni di lavorati dell’ industria, dell’agricoltura, dei trasporti erano decisi a far sentire le loro rivendicazioni. Era l’Autunno Caldo: non c’era né tempo né capacità per risolvere degnamente l’arrivo dei profughi da Tripoli. Né a Trento si pensava alla Sloi che produceva a ritmo serrato.

Certo c’erano gli odori, le acque avvelenate. Ma c’era – e poiché nulla è mutato perché da oltre 80 anni si è solo inquinato – e ancora c’è, il problema dell’inquinamento di quel terreno a ridosso della ferrovia e nel quale – in galleria – si vorrebbe far passare il ventilato, futuro tracciato. Appunto mezzo secolo fa Attilio Albarello in quell’epoca caposquadra deviatore delle ferrovie che passava molte ore al giorno in una cabina presso il fosso nauseabondo ( e, è probabile, in 50 anni l’attività curata da Albarello sarà stata automatizzata ) aveva dichiarato: “Un funzionario del compartimento ferroviario ha compiuto, qualche mese fa, un sopralluogo e si è reso conto dell’aria irrespirabile. Ci ha promesso un’indennità di 150 lire al giorno per comperare un litro di latte per disintossicarci, ma non ci hanno ancora dato una lira”.

Da ricordare che in quegli anni l’intossicazione da piombo, comune anche ai tipografi, veniva curata bevendo il latte e gli operi della Sloi, anche quelli poi indicati come etilisti visto che all’epoca la medicina ( così scrivevano i giornali ) distingueva a fatica il bevitore dall’intossicato da piombo, erano forti consumatori di latte. Da ricordare anche che il 22 aprile di quell’anno il pretore Nestore Capozzi aveva condannato il direttore della Sloi Bertotti a 160.000 lire di multa per gli scarichi nella Fossa. Ma aveva condannato anche altre imprese: la Prada, la Redi Marmi, le cantine Schiripa e la Esterer. Anche loro, senza dolo, inquinavano perché in quell’epoca non si era affrontato il problema delle scorie prodotte dalla lavorazione.


 

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