La prima uscita: arriva la pioggia

La prima uscita: arriva la pioggia

di Eliana Agata Marchese

Il primo momento difficile è stato il transito di fronte al parco, ancora transennato. Tutti ci siamo fermati a omaggiare le altalene. Un attimo dopo sono scattati i pensieri pericolosi: «Potrei venir qui di notte a giocare a basket» ha iniziato Caterina.

Luciano sceglie sempre l’opzione distruttiva: «Potremmo tagliare quel nastro bianco e rosso con le forbici» ha aggiunto. Silvia è più in linea col vissuto di questi giorni: «Potrei videochiamare la mia amica del cuore. Mi piacerebbe tanto che anche lei fosse qui con noi». Per ora le relazioni ammesse sono soltanto con i congiunti. Amici e compagni di banco sono rimandati a tempi migliori. Ma ci si può affacciare di casa, forse siamo sulla buona strada. Mascherine in tasca, pronte all’uso, usciamo per la prima volta dopo due mesi. Partiamo in formazione compatta, e la camminata di un’ora ci pare una traversata oceanica. D’un tratto ci rendiamo conto che mentre ce stavamo rintanati sono spuntati i fiori sugli alberi. Ci sembra incredibile.

Il secondo momento difficile è stato sulla via del ritorno: abbiamo preso la pioggia. Ai bambini sono spuntate le lacrime: «Ecco, proprio adesso che possiamo uscire arrivano le nuvole!». In effetti sembra una beffa: dopo giorni passati nelle nostre stanze, vedendo un bel sole attraverso il vetro, allo scattare della fase 2 è tornato il maltempo. Riusciamo appena a rientrare al volo in casa prima di bagnarci completamente. Non è stata proprio la gita che abbiamo sognato nelle ultime settimane, ma prendere aria era importante. A volte ho paura che, se mai potremo uscire decidendo da soli dove andare, non ne saremo più capaci. Sarebbe il peggior effetto della clausura: abituarci all’idea che la sicurezza sia soltanto fra le mura di casa, e che ovunque all’esterno si nasconda il nemico invisibile.
Mentre passeggiamo insieme ai bambini incrociamo pochi altri camminatori, ma ogni volta sperimento una sensazione antipatica: istintivamente vorrei che non si avvicinassero. E non solo per rispetto delle regole, ma perché ormai abbiamo interiorizzato la diffidenza nei confronti dei nostri simili. Racconto a me stessa che insegnare ai bambini il distanziamento sociale è un modo per proteggere loro e gli altri. Ma non mi piace sentire la mia voce quando spiego che non devono avvicinarsi; non devono violare quel magico cerchio di salvezza che ha raggio di un metro e sembra avvolgerci tutti. E pensare che, prima della quarantena, la raccomandazione più frequente era: «Saluta sempre e dì “grazie” se qualcuno ti aiuta». I due concetti di saluto e distanza mi appaiono in qualche modo antitetici, il “prima” e il “dopo” del Coronavirus, ma ho solo un paio di secondi per pensarci: Luciano, preso dall’euforia della prima uscita oltre i cassonetti della spazzatura (quelli, invece, li abbiamo frequentati ogni giorno), corre in avanti e rischia di allontanarsi troppo. Lo bloccano le sorelle, tenendolo per mano dai due lati.

Raggiungo la prole e finalmente posso fare una raccomandazione normale: «Non allontanarti». Non è stata una grande uscita. Non abbiamo scalato montagne, né visto panorami mozzafiato. Eppure oggi ci sentiamo sulla buona strada. Forse ricominceremo a camminare tutti insieme. Smetteremo di avere paura gli uni degli altri. Non misureremo più la distanza da cui un conoscente ci saluta. Sarà quella la vera “fase 2”.

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