Italia a sovranità limitata? Sì, ha ragione Salvini

Italia a sovranità limitata? Sì, ha ragione Salvini

di Renzo Moser

Su una cosa, tra le tante che ha detto in questi giorni turbolenti, Matteo Salvini ha ragione: l’Italia è un paese a sovranità limitata. «Occupato finanziariamente», ha detto il leader della Lega, ricorrendo non a caso a una metafora bellica. In fondo, chi fu l’ultimo esercito (ultimo di una lunga serie) a occupare il Belpaese? Quello tedesco dopo l’8 settembre.  Allora come oggi, sembra pensare Salvini.

Ma lasciamo da parte le suggestioni storiche. Resta il fatto che siamo un paese a sovranità limitata. E come potrebbe essere altrimenti? Perché stupirsene, quando le nostre finanze pubbliche sono gravate da uno stock di debito che ha raggiunto l’incredibile e inimmaginabile somma di oltre 2.300 miliardi di euro? Un’enormità, che zavorra il paese da anni, che ha radici lontane e che sta alla base di questa sovranità (molto) limitata dell’Italia nell’ambito della propria politica economica.

Sappiamo bene che per sostenere quel debito, che viene di volta in volta rifinanziato con l’emissione di nuovi titoli di Stato, dobbiamo rivolgerci ai mercati finanziari internazionali. Non è una libera scelta: non c’è alternativa.

Per convincere risparmiatori e investitori istituzionali dobbiamo cercare di essere affidabili e credibili. Almeno un po’.

La misura più immediata, e se vogliamo anche più brutale, di questa nostra affidabilità, è il «voto» che le agenzie di rating ci assegnano. Potremmo discutere per giorni sul ruolo di tali agenzie e sui misfatti compiuti nel recente passato (ricordate Lehman Brothers?), ma, che ci piaccia o no, finché le cose non cambieranno, di lì bisogna passare.
Questo è un primo, grande limite alla nostra sovranità in politica economica. Se un'agenzia abbassa, o minaccia di farlo, il rating del debito italiano, le conseguenze sono immediate e, nel nostro caso, possono essere devastanti. La sostenibilità del nostro debito deve essere la prima preoccupazione, ha detto ieri Tito Boeri, aprendo il Festival dell’Economia.

Oggi i rating che le tre principali agenzie assegnano all’Italia sono molto bassi: BBB per Standard & Poor’s, Baa2 per Moody’s e BBB per Fitch. Si tratta di una valutazione di qualità medio bassa  («lower medium grade»), distante anni luce dalla tripla A («prime») della Germania, tanto per avere un termine di paragone.
Questi rating fanno sì che quando l’Italia deve rifinanziare il proprio debito, debba pagare un premio, cioè tassi di rendimento più alti, a chi sottoscrive i suoi titoli di Stato. E questo è un altro bel colpo alla nostra sovranità. Scendere ulteriormente nella scala del rating significherebbe incontrare difficoltà difficilmente superabili. Non solo: escluderebbe l’Italia dal paracadute della Bce che, grazie a Mario Draghi, in questi anni ha mantenuto a galla le finanze pubbliche italiane (alla faccia di chi urla contro la dittatura di Francoforte).

L’intervento della Bce ha in qualche modo tamponato la progressiva perdita di sovranità italiana nella gestione del proprio debito, o forse ha semplicemente illuso che fosse così. Non lo è.

La verità è che dipendiamo dagli altri (i «mercati») sempre di più e in maniera sempre più drammatica. E sono gli altri a dettare le condizioni.
I grandi investitori istituzionali sono diventati una delle maggiori, e forse la maggiore potenza economica del nostro tempo. Gestiscono decine di trilioni di dollari, pari all’intero Pil del mondo, e le loro strategie di investimento influenzano e condizionano i bilanci statali, intere nazioni, la vita di milioni di persone. Ci piace? No, ma è così, e non possiamo liquidare tutto con un’alzata di spalle. Più grande è il nostro debito, più dipendiamo da loro; meno affidabili siamo e più dobbiamo sottostare alle loro condizioni. Ora: che cosa c’è di meno affidabile di un debitore che, unilateralmente, se ne esce un giorno con l’idea, come prevedeva una prima bozza del «contratto» Lega M5S, di chiedere alla Bce di cancellare 250 miliardi di titoli di Stato che l’istituto di Francoforte avrà in bilancio alla fine del Quantitative Easing? O che lascia intravedere la seppur vaga e lontana possibilità di uscire dall’euro, dopo averne sottoscritto gli impegni?

No, non siamo un paese pienamente sovrano. Non perché gli altri siano cattivi o complottino alle nostre spalle: non lo siamo perché noi stessi ci siamo messi in quella situazione. Da molti anni: Pierluigi Ciocca - sì, proprio l’ex vicedirettore della Banca d’Italia che per qualche ora è stato «assegnato» dai rumors al governo dell’economia nell’atteso governo Lega-M5S - mise bene in luce, in un saggio di qualche anno fa, come la crisi valutaria del 1993, figlia della irresponsabile gestione del bilancio degli anni Ottanta, rappresentasse un vero e proprio spartiacque. Significò la perdita della moneta, simbolo primo dell’autonomia della politica economica. La nostra sovranità limitata, come detto all’inizio, ha radici lontane: allora non c’erano né l’euro né la Merkel. C’erano gli italiani, artefici, nel bene e nel male, del loro destino. Oggi non è diverso.

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