Pensioni, la verità che viene nascosta

Pensioni, la verità che viene nascosta

di Pierangelo Giovanetti

C'è una verità matematica oggettiva che sindacati e politici, specie a pochi mesi dalle elezioni, si guardano dal riconoscere con chiarezza: se non si adegua l'età pensionabile alla crescita di aspettativa di vita degli italiani, si costringono intere generazioni di giovani e meno giovani a lavorare fino a 75 anni e oltre. Se oggi, purtroppo, si deve lavorare fino a 66 anni e sette mesi, e dal 1° gennaio si sale a 67 anni, lo si deve solo ed esclusivamente alle baby pensioni percepite per anni dagli italiani e alla follia politico-sindacale che negli anni '70- '80 ha demagogicamente abbassato l'età della pensione ai quarantenni, e anche ai più giovani.

Se ora ci tocca lavorare fino a tarda età non è colpa della Fornero e della sua riforma, la più seria e importante varata in Italia negli ultimi 25 anni, ma di chi nei trent'anni precedenti ha sperperato le risorse ingannando gli italiani che si potesse andare in quiescenza, senza aver versato i contributi e in età impensabili in tutto il resto del mondo. Su 130 punti di debito pubblico - zavorra che sta uccidendo l'economia e costringendo i nostri giovani a cercar fortuna all'estero -, 100 punti dipendono dalle baby pensioni. Ciò vuol dire che il debito in Italia non è dovuto agli sprechi o alla malversazione, ma in gran parte alle pensioni e ad un sistema previdenziale che sottrae risorse a chi non ne ha (o ne ha poche in stipendio), per darle a chi non lo merita avendo versato contributi ridotti e percependo il vitalizio già da diversi anni. Ecco perché il meccanismo non va assolutamente toccato, nonostante sia evidente a tutti che lavorare fino a 67 anni è un assurdo. Ma va fatto per non costringere la maggior parte dei lavoratori che non sono ancora in pensione a dover lavorare dopo fino a 75 anni.

È una questione di giustizia, prima ancora che di salvaguardia del sistema previdenziale che altrimenti rischia di saltare e non garantire più la pensione per nessuno, nemmeno per quelli che la stanno percependo. Le giovani generazioni sono già state private di molte delle garanzie sociali di cui hanno beneficiato i loro genitori. Se non si vuole privarle del tutto anche della pensione, il meccanismo di garanzia va mantenuto, e non va assolutamente rinviato l'adeguamento previsto dalla legge in base alla speranza di vita. Chi, come il segretario generale della Cgil Susanna Camusso, sostiene il contrario, mente sapendo spudoratamente e irresponsabilmente di mentire, per difendere la più numerosa categoria di iscritti al sindacato, che è quella dei pensionati a tutto danno dei lavoratori, specie i più giovani, e dei loro stipendi.

Chi, fra i partiti e i movimenti, anche nel Partito democratico azionista di maggioranza del governo, chiede il rinvio dell'adeguamento a dopo le elezioni, si accoda in maniera populista e incosciente agli sfascisti del Paese, in nome di qualche ipotetico tornaconto elettorale immediato a scapito della società intera, con una totale mancanza di solidarietà intergenerazionale. Siamo tutti d'accordo che lavorare fino a 67 anni è troppo, che in molte professioni dopo i sessant'anni non si è in condizioni accettabili per continuare. Siamo tutti convinti che sia una delle più gravi ingiustizie del nostro Paese dal Dopoguerra ad oggi il divario di pensioni fra chi ha maturato il titolo negli anni Ottanta, Novanta e Duemila, e chi lo potrebbe maturare a breve o in futuro ma non lo potrà fare. Ma proprio per questo non possiamo perseverare nell'errore tragico fatto dal parlamento, dalle organizzazioni sindacali, da buona parte delle cosiddette «parti sociali» trenta-quaranta anni fa, di scaricare il costo impressionante delle pensioni su chi veniva dopo. Era immorale allora, ma lo è ancora più oggi.

Con la riduzione demografica in corso in Italia, lo spostamento dell'adeguamento dell'età pensionistica dal 2019 al 2021 costerebbe a tutti noi 140 miliardi di euro da qui al 2040. Vorrebbe dire costringere i governi ad aumentare le tasse in maniera insostenibile, assai più di quanto lo sia attualmente, o ridurre l'erogazione delle pensioni future, che quindi risulteranno proprie misere. Oggi il contributo previdenziale in busta paga grava sugli stipendi di chi lavora per il 33%: è il più alto al mondo, quando la media dei paesi occidentali arriva al 19%. Questo perché in Italia le pensioni non vengono pagate dai contributi versati da ciascuno, ma dal prelievo sui lavoratori: insomma grava in maniera esagerata su chi lavora, costretto a pagare i privilegi di chi è andato in pensione prima.

In Italia, infatti, vengono erogati 23,4 milioni di assegni pensionistici per 16 milioni e mezzo di pensionati, con una spesa di 260 miliardi di euro l'anno. Di questi, 50 miliardi all'anno non sono versati nemmeno dai lavoratori ma sono presi dalle tasche degli italiani con le tasse, sottratti alle categorie che ne hanno più bisogno, in particolare i giovani. La beffa più grande è che una parte di tali soldi (15 miliardi) servono per erogare pensioni superiori ai 3000 euro al mese: in sostanza si prende ai poveri per dare ai ricchi, con il beneplacito della Corte costituzionale che ha difeso in maniera spregiudicata e superficiale «i diritti acquisiti» dei privilegiati del passato rispetto ai «diritti minimi» di chi verrà dopo. E la cosa ancora più scandalosa è che il 52,2% delle pensioni oggi sono superiori di gran lunga a quanto spetterebbe a ciascuno in base ai contributi versati. Vuol dire che più di un pensionato su due vive sulle spalle dei giovani, percependo assai più di quanto il suo calcolo contributivo gli assegnerebbe.

Certo, sarebbe stato meglio e più giusto se la riforma Fornero invece di allungare l'età pensionistica a tutti avesse semplicemente ricalcolato quanto ciascuno di coloro che sono in pensione meriterebbero in base ai contributi versati, ma vi sarebbe stata la sollevazione dei percettori di «diritti acquisiti», forti dei cavilli della Consulta. Quindi si è più semplicemente allungato l'età pensionabile a quanti venivano dopo.
Che fare, allora? Oggi la cosa più sensata non è quella di far saltare il sistema previdenziale rimandando gli adeguamenti, ma di individuare i lavori più usuranti e le categorie più esposte, e facilitare solo per questi l'ingresso anticipato alla pensione. Il modello è quello dell'Ape (anticipo pensionistico) sociale, il ritiro dal lavoro a età/ anzianità anticipata con un prestito i cui costi sono a carico della collettività; o dell'Ape volontaria, consentendo a chi se ne avvale di accedere ad un prestito che poi dovrà restituire.

In questo modo l'anticipo della pensione scatterebbe soltanto per i lavori più gravosi. In più si potrebbe pensare a misurare la speranza di vita ogni due anni invece di tre, così da poter anticipare l'entrata in pensione se le condizioni generali di vita peggiorassero. In futuro l'età di ingresso alla pensione sarà per tutti abbassata, ma soltanto quando il sistema sarà tornato in equilibrio. Oggi infatti la vita lavorativa media in Italia non è di 40 anni e oltre, come si potrebbe pensare, ma soltanto di 31 anni, quando la media europea è di 37 anni. Questo perché oggi si va in pensione dopo 40 anni e più di lavoro per bilanciare chi vi è andato dopo soli 15 anni.

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