I rifugi non vanno «alberghizzati»

I rifugi non vanno «alberghizzati»

di Franco De Battaglia

Caro de Battaglia, «struca struca per dirla en dialet», dopo tanti paroloni, siamo tutti d’accordo: i rifugi alpini non vanno alberghizzati! Persino il legislatore trentino, che non sempre brilla per chiarezza, ha sentenziato: I rifugi alpini sono strutture ricettive che assicurano presidio di sobria ospitalità in zone di montagna, non raggiungibili da strade aperte al traffico ordinario (LP 8/93)

E per offrire sobria ospitalità, anche la struttura dovrà essere sobria (scusa il gioco di parole); ne consegue che costruzioni o ricostruzioni dovranno avvenire con rigorosi criteri di razionalità, funzionalità, economicità costruttiva e gestionale. Razionalità significa anzitutto l’ottimizzazione del rapporto superfici esterne con il volume, ottimizzazione che raggiunge il suo massimo nella forma cubica; la Sat la pensò e realizzò moltissimi anni fa.  Un prisma che si avvicini al cubo come suggeriscono i principi basilari della bio-edilizia, esattamente il contrario di quanto realizzato al tanto decantato Ponte di Ghiaccio-Edelrauthütte che presenta una pianta ad L che definirei dispersiva.

Funzionalità riferita ovviamente all’ospite: gli alpinisti sudati, bagnati, intirizziti trovino un locale non troppo freddo per cambiarsi, un asciugatoio per i loro indumenti, un letto a castello in cameretta o camerata con materasso non sfondato, coperte o piumini. I letti a castello vengono imposti di fatto dalla normativa provinciale, encomiabile in questo punto ma non in tanti altri, che prescrive un sobrio valore di aria per letto: 8 metri cubi! E qui si bloccano suite e riservate camerette con servizi (eccezion fatta per gestore e dipendenti). Ma trovino anche una sala da pranzo e ritrovo con un numero di posti superiore a quello dei posti letto e non come al sempre decantato Ponte di Ghiaccio: 60 letti e 50 posti tavola, una pecca.
Una scelta oculata di materiali, tecniche costruttive ed impiantistica, senza esasperazioni tecnologiche, tenendo conto che i rifugi sono aperti pochi mesi all’anno porta a quella economicità sopraccitata; è anche un dovere civico per spese in buona parte ormai sostenute dalla collettività.

Dell’ipertecnologico ho una esperienza banale ma significativa al nuovo Monte Rosahütte; nella cameretta a sei letti si arrivava a temperature insopportabili col calore prodotto dai cinque presenti pur essendo una notte parecchio sotto zero di fine inverno ed aprendo la finestra l’aria freddissima gelava immediatamente il malcapitato vicino all’apertura. Effetto perverso del super isolamento termico della struttura… e non andava meglio nell’affollata sala da pranzo.

Paolo Scoz
Già presidente Commissione rifugi Sat



Caro Scoz, è bene che si riaccenda questo dibattito sul futuro dei rifugi, perché si tratta del futuro della nostra montagna, di una libertà nella montagna che significa saperla vivere in un’epoca che è sì «post-pastorale», ma non dimentica la natura e la storia. Perché una cultura alpina, dopotutto esiste, fatta di sostenibilità, rinnovabilità delle risorse, misura ed anche spiritualità.

Lo sanno bene quelli che tutti i giorni si impegnano a distruggerla perché è di ostacolo ai loro affari. Un fatto è certo: il futuro della montagna - e il benessere delle popolazioni che la abitano - non passa dal discendere le piste da sci in Suv, né dall’umiliare l’ambiente sfregiandolo con gli sbancamenti, o con quella che Mario Botta, come ha scritto Petrolli, chiama «la perversione di certa architettura». Che sarebbe poi quella senza relazione con il contesto (urbano e naturale) e con la memoria storica.

Non sappiamo se anche Botta (la «torre» di Mendrisio ha suscitato fiere polemiche) predica bene e razzola male, ma certo su questo concetto si troverebbe d’accordo anche Annibale Salsa. Che poi è certo che sopra la zona silvo-pastorale occorre impostare, per i rifugi, tipologie più razionali, attente al risparmio energetico (come sempre è stata attenta l’architettura alpina, dalle Stube gardenesi, alle verande fassane, alla Viles badiote) ma è anche non vero che «sopra i 2000» si possa fare ciò che si vuole. Cosa che nessuno magari dice, ma molti provano a fare.

Non è vero che sopra le malghe non ci fosse nulla. Esisteva un territorio percepito come dimensione aperta all’ignoto, al terribile ma anche all’amore, alle leggende, alle esplorazioni. Le leggende dei Monti Pallidi le gettiamo via? E gli audaci valligiani, cacciatori, cercatori di cristalli … che raggiunsero il Piz Boé, la Marmolada, il Pelmo, prima di tedeschi e inglesi li dimentichiamo?

Questo per dire che non basta la razionalità tecnologica a promuovere certe dirompenze come quelle citate da Scoz, la Monte Rosahütte e il Gouter (nella foto), né basta suggerirle laboratorio dei prossimi insediamenti umani su Marte (!) come non ci stupisce troppo che nelle loro camerette sia impossibile dormire. «Il meglio - dice il vecchio detto - è spesso nemico del bene», e non sarà certo la super tecnologia (lo constatiamo ogni giorno) a salvarci. Allora studiamo, proponiamo e sperimentiamo pure, sapendo però che i rifugi non servono solo a riparare dal freddo gli scalatori, ma sono anche «rifugi» dell’animo, dei sentimenti, della vita.

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