Rifugi alpini: innovare nella tradizione

Rifugi alpini: innovare nella tradizione

di Annibale Salsa

Il recente scambio di opinioni fra un lettore dell’Adige e Franco de Battaglia, intorno alla questione relativa ad un presunto «stile alpino» dei rifugi, si è arricchito della risposta da parte dell’architetto Alessandro Franceschini. Della questione mi ero occupato anch’io nell’ambito di un convegno svoltosi a Trento sullo stesso tema.

Un tema che coinvolge competenze sia tecniche che culturali, oltre che alpinistiche, per le implicazioni di ordine architettonico e socio-antropologico che esso richiama. Il dibattito in corso mi induce, pertanto, ad intervenire riproponendo alcuni passaggi del mio intervento di allora, data la sua attualità. In una società in rapida trasformazione, niente può essere ricondotto a modelli di immutabilità a carattere definitivo. Ciò vale anche per i rifugi alpini. L’idea del rifugio sorge, infatti, nella fase di nascita e diffusione del turismo alpinistico.

L’idea del rifugio sorge cioè quando gli appassionati di montagna si organizzano in forma associativa e avvertono il bisogno di costruire strutture finalizzate a dare ricovero a cittadini-turisti fisicamente lontani dalle terre alte. Gli abitanti delle montagne avevano i loro ricoveri destinati a garantire la presenza in quota nei periodi di stagionalità agro-pastorale. Erano ricoveri legati al territorio e alle sue vocazioni originarie, costruiti per esigenze di lunga durata e adattati alle mutevoli ragioni della sopravvivenza.

Ma quando l’invenzione turistica delle montagne genererà nuovi bisogni nasceranno strutture che, con le attività tradizionali, non avranno più nulla in comune. La montagna si arricchirà di costruzioni separate dal contesto rurale e finalizzate a destinazioni d’uso fino a quel momento impensabili. Luoghi della fatica contadina si affiancheranno, così, a luoghi reinventati dalla fatica alpinistica. I «signori» aristocratici e borghesi, arrivati dalle città di pianura sulla scia di un prorompente immaginario romantico, contribuiranno ad alimentare il nuovo spirito del rifugio in una direzione specificatamente protettiva. Le soluzioni architettoniche seguiranno l’evoluzione del gusto estetico nel tentativo di riprodurre il senso ed il significato della montagna secondo gli stilemi rappresentativi dello specifico momento storico.

Le Alpi, in relazione ai loro bacini di influenza e di frequentazione, vedranno sorgere strutture ispirate, rispettivamente, al modello architettonico dello chalet savoiardo-vallesano nel settore occidentale o di quello tirolese nel settore centro-orientale. Il legame con il territorio - e con il genius loci che lo rappresenta - è perciò mediato da una visione esterna «ideal-tipica», anche se rispettosa dei materiali presenti in loco, funzionale a un’economia ecologica irrinunciabile.
Dall’alberghetto di fondo valle o di mezza costa, la salita al rifugio assumerà il significato di una peregrinazione catartica, liberatoria, quasi «religiosa» in senso etimologico, capace di istituire un legame fra il basso e l’alto, fra la quotidianità prosaica e l’innalzamento sacrale.

La frequentazione alpinistica delle montagne innesca, pertanto, nuove forme di comportamento improntate ad un nomadismo verticale a tappe che, con gli usi pastorali, condivide ancora i percorsi di salita ai rifugi attraverso il reticolo dei sentieri di transumanza. I mezzi meccanici non hanno fatto ancora la loro comparsa ed i dislivelli devono essere superati a piedi, con le sole forze fisiche. Il rifugio diventa un punto di sosta intermedia di breve durata, in attesa del balzo finale verso la vetta. Esso costituisce una tappa, su piccola scala, della tradizionale pratica rurale della monticazione intermedia, in attesa dell’inalpamento finale. Si va definendo, in tal modo, una «cultura del rifugio» che, nelle sue diverse articolazioni regionali, alimenta una potente mitologia affidata al racconto rievocativo di un’epopea al tramonto.

Oggi la situazione non si presenta più in queste forme. La viabilità stradale di arroccamento, gli impianti di risalita meccanici, rendono il rifugio - soprattutto quello di media montagna - non più automaticamente funzionale alla domanda alpinistica delle origini. La crisi dell’alpinismo classico, la crescita quantitativa dell’escursionismo in tutte le sue declinazioni, fanno del rifugio un qualcosa di progressivamente diverso rispetto al passato. Il turismo di massa, a partire dagli anni sessanta/ settanta del secolo scorso, ha modificato radicalmente il sistema dei bisogni creandone di nuovi e soppiantando i vecchi. Molte strutture, in alcuni settori delle Alpi, erano incustodite, prive di gestore, affidate al solo volontariato associativo ed all’animo spartano dei frequentatori, le cui esigenze non andavano oltre l’essenziale. Quelli custoditi, ubicati nelle aree turisticamente più richieste ed ambite, venivano e vengono affidati alle guide alpine che, fino a non molti anni fa, erano quasi interamente valligiane: uomini del territorio, portatori di interesse locali.

I tempi e le situazioni cambiano, però, con una velocità che talvolta diventa impossibile inseguire. Eppure, ragioni pragmatiche di offerta legate alle nuove forme di turismo dovrebbero, in qualche modo, anticipare le tendenze legate a bisogni sempre più diversificati nella domanda. La sfida postmoderna della complessità si gioca anche su questo terreno. Durante i mesi estivi, molti turisti vedono nel rifugio una meta appetibile da raggiungere. Il sogno di avvicinarsi alle grandi montagne, senza rischiare troppo, trasforma il raggiungimento del rifugio in una meta finale, a portata di quasi tutte le età.

Un luogo dove ritrovare una sociabilità perduta nella frenesia della vita urbana e sperimentare quell’atmosfera incantata che il nome stesso di «rifugio» suscita ancora nella nostra società del disincanto. La magia del guscio protettivo costituisce, infatti, un potente fattore di seduzione che sarebbe ingiusto negare. In questa rappresentazione dell’incantamento, contrastante con le attuali visioni del mondo proiettate verso l’annientamento dello stupore e della meraviglia, l’atmosfera del rifugio è tutt’altro che perduta. Può essere ancora la molla capace di tenere vivo l’interesse, sia di chi si avvicina per la prima volta alla montagna, sia chi si appaga ciclicamente di un «déja vu» affascinante. Sembra quasi ripetersi la contrapposizione che, a fine Ottocento, opponeva i fautori della conquista delle vette, soci dell’Alpine Club di Londra, a quei personaggi come John Ruskin che sostenevano la visione a distanza delle montagne, «cattedrali della Terra» da contemplare senza conquistare.

Anche se le motivazioni dei nuovi frequentatori della montagna non sono sempre riconducibili a queste sublimi e raffinate riflessioni etico-estetiche, resta il dato inoppugnabile dell’emergere di un modo diverso di frequentare i rifugi, che richiede coraggiosi ripensamenti sul loro ruolo al servizio della montagna. Tradizione ed innovazione sono concetti e pratiche che non possono venire disgiunti in quanto è in gioco un’identità in movimento, quella dei rifugi appunto, che non può rinnegare una tradizione consolidata ma che, al tempo stesso, deve porre mano a forme di rivisitazione progettuale e gestionale imposte dalla rapida evoluzione dei tempi.

Il rifugio, per sua stessa definizione e poiché le parole dovrebbero essere lo specchio delle cose (basti pensare al valore della toponomastica storica nelle Alpi), non può e non deve essere confuso con la struttura alberghiera. Ma ciò non giustifica l’atteggiamento purista di restare ancorati ad una falsa immutabilità che, in nome di una discutibile autenticità, si carica di repertori retorici disancorati dalla realtà sociale ed economica. Innovare in maniera sobria e rispettosa significa governare le spinte al cambiamento, gestirle in modo da evitare che le voglie di nuovismo ad ogni costo possano generare sradicamenti territoriali o spaesamenti mentali. Sarebbe un porsi fuori dalla storia la quale, nel suo incessante dinamismo, travolge tutto ciò che le resiste.

Tante buone pratiche sono documentate sull’arco alpino, sorrette dalla determinazione di trovare un equilibrio accettabile fra il mantenimento dell’aura sacrale del rifugio e le indifferibili esigenze di rinnovamento. In alcuni settori delle Alpi Occidentali, cui è legata la mia esperienza di frequentazione giovanile, resistevano e resistono ancora prassi gestionali legate a modelli d’«antan», come quella dei rifugi incustoditi. Va detto che in questi distretti geografici la distanza dal fondovalle e dalle strade carrarecce è molto maggiore rispetto all’area dolomitica. Comunque, gli sforzi per porre mano ad una rivoluzione epocale nel riposizionamento strategico dei rifugi sono già partiti. Nascono talvolta dissensi sugli obiettivi, si generano spesso conflitti fra le associazioni alpinistiche proprietarie e gestori.

Difficoltà a parte, il cammino è ormai segnato, anche se è faticoso come tutti i percorsi di montagna. Un cammino che deve ispirarsi alla massima del «pensare globalmente e agire localmente», poiché oggi la sfida è «glocale». A sua volta, il localismo genera chiusure autoreferenziali annullando la capacità di confrontarsi con l’esterno. Ben vengano, quindi, i confronti e le comparazioni con quanto accade sulle montagne degli altri. La grande sfida culturale per un modo nuovo di ripensare i rifugi, soprattutto quelli di media montagna, resta quella di farne presidi del territorio, vetrine dei luoghi in cui sono insediati, spazi sociali dell’accoglienza per far dialogare la storia del luogo con la sua geografia, l’ambiente naturale con il paesaggio costruito, il genius loci con l’altrove.

Se per i rifugi di media montagna, quindi, può avere senso richiamarsi alle caratteristiche dei manufatti tradizionali «alpini» - in quanto ubicati in territori antropizzati fortemente contestualizzati entro paesaggi culturali rurali - per i rifugi d’alta montagna la libertà progettuale può trovare maggiori spazi di innovazione in quanto, in alta montagna, il rifugio è pur sempre un corpo estraneo all’ambiente.

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