Tonini da ricostruire ma in stile alpino

Tonini da ricostruire ma in stile alpino

di Franco De Battaglia

Il Rifugio. Cos’è il Rifugio, per uno che la montagna è la sua vita, la sua cultura, uno dei suoi orizzonti...? È raggiungere la meta, la tappa accogliente di un percorso tracciato, il riposo, il ristoro, il condividere con altri emozioni, un gestore sicuramente più forte ed esperto ma disposto a condividere anche lui ... Insomma il Rifugio è una casa, una casa di montagna, protettiva, sicura ma positiva, non esclusiva, in armonia con il posto e con la sua storia, la sua natura, il suo essere... una casa!

Guai, a mio parere, stravolgere queste caratteristiche con motivazioni tecnologiche o esclusivamente eco energetiche: il risultato sono dei «mostri» formati da titanio, gratificanti forse per architetti performanti ma vessatori, ne sono certo, verso allibiti alpinisti.
Due soli esempi concreti.

Il bivacco della Vigolana: ci vanno in pochi, tranne forse a Capodanno, per sparare due razzi e passare qualche ora con la morosa. Che bisogno c’era di passare dalla classica forma «bivacco» a un manufatto aggettante titanico e.... boh!?

Poi il Rifugio Ponte di Ghiaccio, al Gran Pilastro. Ricordo il nostro arrivo al pomeriggio, stravolti, dopo la tappa dell’alta via di Fundres dal Rifugio Bressanone, 9 ore e 1.400 metri di dislivello, frantumi di granito spaccaginocchia,... e la felicità di arrivare al Rifugio.
Piccolo, bello, tutto scandole di legno, con le panche verso sud-ovest. Bere la birra al tramonto e brindare alla faticosa gita conclusa bene... e il gestore che «considerando la tappa appena conclusa» ci dava una cameretta da due, in cima alla scaletta scricchiolante...una compiutezza più che una gentilezza. E guardate l’immagine del «nuovo» Rifugio Ponte di Ghiaccio.

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Pensate che le stesse emozioni siano possibili? C’è lì un’astronave titanica calata sul passo, con finestrelle che sembrano oblò, che gelano il cuore, ipertecnologico forse, protettivo forse anche, ma scollato, gelido e non in armonia di sicuro... Non dobbiamo solo difenderci, proteggerci... dobbiamo vivere, condividere, essere in armonia.
Quindi, concludendo, il Rifugio Tonini ricostruiamolo come si deve, in stile alpino/ alpestre, è così che i ragazzi, le famiglie, gli alpinisti, tutti godranno dell’armonia che troveranno, senza neanche rendersene conto.

Marco Sartori

L’incendio del Rifugio Tonini e le successive proposte per una sua ricostruzione fuori dalla tipologia tradizionale (il rifugio come ultimo avamposto di una cultura della montagna che viene dalla natura e si incontra con il lavoro dell’uomo) hanno aperto un forte confronto, non privo di timori e polemiche, nel mondo urbanistico e alpinistico. Cosa è destinata a diventare la montagna, strappata alla manualità dei suoi fruitori tradizionali e consegnata alle visioni illuministiche, spesso astratte degli architetti? Diverrà un terreno di sperimentazioni costruttive «in un territorio limite» come si scrive, così come è sempre più «terreno di gioco» per attività estreme nel turismo e nel consumismo? Ora che il tessuto urbano (non solo le periferie) sul quale si è esercitato nell’ultimo secolo l’individualismo spesso presuntuoso dell’architettura è stato prosciugato e isterilito nelle sue proposte e concezioni («Le Albere», perfette e inabitabili, che nessuno vuole!) il «far west» delle nuove conquiste passa in alto, sulla montagna. Archiviate troppo in fretta, senza alcun ripensamento, le Fassalaurine e le Marilleva con l’impoverimento anche economico che hanno provocato, sono ora i rifugi ad essere presi di mira. È un dibattito attuale: «Step», il centro studi sul paesaggio con TSM ha in calendario tre giorni di confronti il 1 marzo, il 30 marzo e il 6 aprile, alle 16.30 al TSM in via Giusti. Ma la discriminante, come bene esprime questa lettera, non è tanto architettonica, ma culturale, esistenziale e attiene all’idea stessa di montagna. Da un lato c’è una visione «graduale», armoniosa della montagna: l’alpinista segue le orme dei pastori, è l’erede dell’audacia dei cacciatori, degli esploratori. Dall’altro c’è invece la neocolonizzazione del «mercato», le stazioni d’arrivo degli impianti a pagamento, volutamente dirompenti, dissonanti, prevaricanti sulle cime. Trasformano la montagna in stazione spaziale (Paganella! Pordoi …) e fanno apparire lontani i tempi in cui grandi archetti (i tedeschi, il trentino Sottsass …) volevano armonizzare nella modernità, con genialità e umiltà, una tradizione che non è vecchio passato, ma è innovazione, perché propone un’alternativa di vita più libera, relazioni più intense, buone. Le immagini (solo alcune) che possono essere proposte (il nuovo Ponte di Ghiaccio - confrontare su Internet col vecchio - il Vallanta al Monviso, lo stesso bivacco della Vigolana con le linee volutamente in rottura (perché?) con la verticalità della montagna («Qui ci sono io, non ci sei più tu, montagna»!) aiutano a capire. E a reagire.

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