Rifugi: non esiste uno stile alpino

Rifugi: non esiste uno stile alpino

di Alessandro Franceschini

Leggere la lettera indirizzata all’amico Franco de Battaglia e firmata da Marco Sartori, può essere vista come un’esperienza antropologica. Che ci racconta lo stato di confusione che noi trentini abbiamo in ordine di identità culturale. Di gusto, di senso del tempo.

Il tema, fortunatamente all’ordine del giorno, è quello dello stile con cui dovrebbero essere costruiti (o ricostruiti) i rifugi alpini. In poche righe, Sartori concentra e confonde concetti, mescola esperienze personali con istanze comunitarie, scambia la finzione per la realtà. Ci racconta molto dei nostri pregiudizi e della strada che dobbiamo compiere per apprezzare l’architettura contemporanea, al pari delle altre innovazioni che caratterizzano il nostro tempo.

Perché un rifugio montano non è una casa; perché non esiste uno stile alpino ereditato nella notte dei tempi, scolpito sulle tavole della legge, ma solo forme in evoluzione che una comunità imprime al proprio paesaggio in funzione della propria capacità costruttiva ed maturità tecnologica; perché non possiamo abdicare alla sfida del futuro crogiolandoci nei ricordi nostalgici di un tempo che non tornerà più. Il Sartori però ci racconta molto nel sotto testo della sua lettera: le cose che si ricorda della sua permanenza al rifugio sono la birra (immaginiamo bella fresca, da frigo, e quindi non esattamente in «stile alpino»), le cameretta doppia (una «compiutezza» necessaria, ci lascia intuire l’escursionista).

Cosa ci dice tutto ciò? Che il mondo è cambiato e anche le esigenze dei fruitori dei rifugi sono cambiate; che anche il Sartori non si accontenta più di un tavolato su cui bivaccare e di un piatto di minestrone, ma ha bisogno di standard diversi, che oramai fanno parte in tutto e per tutto dell’esperienza montana. Non solo di un tramonto, quindi. Ma di una birra ghiacciata in mano. E di una camera accogliente. Ecco perché i rifugi alpini non possono più assomigliare alle malghe che, in principio, li avevano generati: perché non ci sono più stalle in montagna, né vacche al pascolo. Perché i montanari, oggi, hanno lo smartphone in tasca e il Suv parcheggiato all’attacco del sentiero. Ai piedi hanno le suole Vibram e non le sgalmare, indossano pantaloni in goretex e non alla zuava. Tutto il mondo è cambiato in questi cinquant’anni. E conseguentemente è giusto che cambi l’architettura, lo stile dei rifugi.

A noi abitanti delle montagne il compito di capire il segno dei tempi che attraversiamo e di lavorare di conseguenza, così come hanno fatto i nostri padri, e i padri di loro, ogni qual volta la tecnica ha fornito qualcosa di nuovo. È così che la grotta è diventata palafitta e poi baita in tronchi incastrati e poi fienile in assi di legno e poi edificio in pietra e malta.

Pena il rimanere prigionieri di un’immagine che non c’è più, di diventare sempre più marginali, di essere, per davvero, «piccoli e soli» dentro un sistema alpino che cambia velocemente e che non ha paura di abbracciare le sfide della modernità. Senza per questo veder minata o indebolita la propria storia, la propria identità.

comments powered by Disqus