Maestro Morricone così ulula il coyote

Maestro Morricone così ulula il coyote

di Paolo Ghezzi

C' è un detto, secondo il quale un uomo, prima di morire, dovrebbe fare almeno tre cose: piantare un albero, scrivere un libro, mettere al mondo un figlio. Sciocchezze: troppi brutti libri ingolfano le biblioteche; troppe feste degli alberi hanno cancellato prati e radure, nascondendoci il cielo; troppi figli non voluti o mal cresciuti popolano il pianeta (essere padri o madri o «mammi» non è un dovere e neppure un diritto, semmai è un desiderio: vero Geppetto?). Comunque milioni di uomini continuano a piantare alberi (e benedetti siano quelli che li piantano nei deserti), libri e figli. Come hanno fatto i padri dei loro padri.

Solo poche centinaia di esseri umani hanno invece il dono e la fortuna di piantare una musica, indelebilmente, nella nostra memoria. Che cosa sarebbe Steven Spielberg senza John Williams (cioè, il nostro amato Indiana Jones senza la colonna sonora dei Predatori), Federico Fellini senza Nino Rota, Alfred Hitchcock senza Bernard Herrmann, Sergio Leone senza Ennio Morricone (in foto)? Autore di decine di soundtrack memorabili (una per tutte, quella flautata e struggente per gli eroici missionari gesuiti del Paraguay De Niro e Irons in «Mission» di Joffé), l'ottantasettenne maestro romano, fresca stella n. 2574 sulla Walk of Fame di Hollywood, ha vinto l'Oscar per i ripugnanti 8 di quel genio truculento innamorato degli spaghetti western che è Quentin Tarantino, ma agli straordinari western all'italiana di Sergio Leone deve il suo mito leggendario. «Per un pugno di dollari» e «Il buono, il brutto e il cattivo», senza le colonne di Morricone, perderebbero colore, grinta e humor: perché quelle musiche riuscivano ad essere insieme epiche e autoironiche, galvanizzanti e derisorie, descrittive e sferzanti. Il motivo principale, che evoca l'ululato del coyote, è una melodia elementare di due note (un grappoletto di la-re-la-re-la), che ti colpisce come una freccia acuminata.

Viene suonata come «sigla» per tutti e tre i personaggi principali del film, ma con un differente strumento: flauto per il Biondo, l'arghilofono del maestro Italo Cammarota per Sentenza e la voce umana per Tuco. Morricone spiega così «Il buono, il brutto e il cattivo»: «Quando dirigo il pezzo in concerto, gli ululati di coyote che danno il ritmo ai titoli del film sono realizzati di solito col clarinetto. Ma nella versione originale adottai soluzioni molto più inventive. Due voci maschili cantavano sovrapponendosi l'una con l'altra, una gridando A e l'altra E. Gli AAAH ed EEEH dovevano essere eloquenti, per imitare l'ululato dell'animale ed evocare la ferocia del selvaggio West».

Nel tarantiniano «The Hateful Eight» il Morricone style lo senti, inconfondibile, nella combinazione dinoccolata di armonica, banjo e fischio. Poi, mentre cresce la violenza tra i cattivissimi otto che si massacrano nella locanda degli orrori, resta solo il silenzio intorno ai dialoghi stralunati, alla insanguinatissima Jennifer Jason Leigh, povera stella condannata alla corda, e alla sua mortifera ballata. Ma il Morricone touch resta nell'aria, sospeso come un incantesimo: i grandi compositori per la magia del cinema sono grandi anche nell'assenza, nella sottrazione, nell'eco perduta dei loro sottofondi. Le buone vibrazioni restano: sia lode al maestro Ennio e ai suoi colleghi sciamani.

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