1915: l'attacco del «perfido nemico del Sud»

1915: l'attacco del «perfido nemico del Sud»

di Luigi Sardi

«Ai miei popoli! Il Re d’Italia mi ha dichiarato la guerra. Una fellonia, quale la storia non conosce l’eguale, venne perpetrata dal regno d’Italia verso i suoi due alleati…». Il manifesto è esposto nelle vie di Trento, di Rovereto, Cles, Mezzolombardo. È datato Vienna 23 maggio 1915, è firmato Francesco Giuseppe, l’Imperatore. Una folla silenziosa di donne, anziani, ragazzi, militari lo legge, lo rilegge. È l’annuncio della guerra dichiarata dall’Italia, è la certezza che s’abbatterà sul Trentino l’identico orrore che insanguina l’Europa.
A dieci mesi dallo scoppio del conflitto il Tirolo è all’improvviso minacciato dall’Italia, dal nemico ereditario. Re Vittorio Emanuele III ha rotto la trentennale alleanza, la dichiarata amicizia, la neutralità, e passato armi e bandiere con i nemici dell’Austria e della Germania, sta per attaccare i confini meridionali dell’Impero.

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Il popolo del Tirolo profondamente scosso dal difficilissimo andamento della guerra, dalle sconfitte subite, dai lutti si accende in una ventata di patriottismo. Certo, c’è d’affrontare un nuovo nemico, si apre un altro difficile fronte ma tutti capiscono che l’Italia ha tradito gli alleati in un momento molto duro attaccando alle spalle una nazione indicata, almeno sulle carte dei trattati, come amica. C’è la convinzione che questa è una guerra giusta, che bisogna difendere la patria, ma anche la propria famiglia, i paesi, le case, i campi. Ancora poche ore e migliaia di trentini dovranno abbandonare le loro abitazioni, le chiese, le scuole, le stalle, il cimitero per diventare profughi nell’interno della Monarchia dove saranno visti come bocche da sfamare o presi dalla breve avanzata del Regio Esercito, internati nel Regno dove non sono visti come fratelli, ma come nemici.

Nel proclama dell’Imperatore l’Italia diventa «il perfido nemico del sud». Si teme l’invasione del Tirolo ma l’italico esercito invece di avventurarsi sul Trentino presidiato da un velo di truppe, comincia a schierarsi sull’Isonzo per impantanarsi fino alla tragedia di Caporetto sui primi gradoni del Carso. 

È il 23 maggio di cento anni fa. L’Italia scatena una guerra cercata da un’ irruente minoranza urlante e intimidente, che ha avuto sempre ragione sulla maggioranza silenziosa. Propagandata dai giornali, che non risparmiavano notizie sulle atrocità dei furiosi combattimenti sul fronte francese, serbo e russo, diventa in quel maggio «radioso» per la retorica, in realtà tragico, addirittura popolare, conseguenza travolgente di un’ incomprensibile emozione collettiva incapace di riflettere sul numero impressionante di vite già sacrificate in un’Europa da dieci mesi in fiamme.

Nonostante tutti gli accadimenti, l’Italia seguiva il mito di una guerra breve, risolutiva, naturalmente vittoriosa anche se dal 2 agosto dell’anno prima infuriava sul fronte occidentale, su quello russo, sui mari e nei cieli, in un crescendo di inaudita violenza e senza speranze di conclusione. Era già un orrore collettivo senza precedenti, vivacemente e correttamente documentato dai giornali e dalle tavole a colori della «Domenica del Corriere». Una guerra nella quale gli italiani si ficcarono con una partecipazione ben documentata dagli spezzoni cinematografici che ci mostrano le oceaniche dimostrazioni interventiste nelle maggiori città del Regno.

Nella primavera del 1915 il governo nazional liberale di Antonio Salandra e del ministro degli esteri Sidney Sonnino aveva, certamente, il desiderio di liberare le terre dove si parlava l’italiano dette irredente, senza però curarsi dei sentimenti popolari delle genti che vivevano in quei territori; di completare il sogno risorgimentale, di emancipare secondo il verbo degli interventisti, i popoli trentini, danubiani e slavi dalla prigione – questa era la convinzione generale – dell’autocrazia asburgica, poco conoscendo la realtà di quelle terre che volevano liberare. C’era soprattutto la volontà di conquistare per il Regno lo status di grande potenza nell’area adriatica e balcanica, di possedere nuovi territori, di partecipare all’assestamento dell’Europa ed esaltare l’identità italiana. C’era soprattutto la volontà di trovare uno spazio nel cuore del sistema delle grandi potenze europee. Insomma l’ultimo, eroico e tragico atto del Risorgimento che diventa una guerra di conquista, quindi imperialista dopo quella, disastrosamente fallita in Abissinia e difficilissima in Libia.

Nell’agosto del 1914 l’Austria e la Germania si erano scatenate contro la Serbia, Russia e la Francia alla quale si era subito allineata l’Inghilterra. L’Italia che era marginale, incapace di risolvere i problemi interni di natura sia politica che sociale, oppressa dal ricordo di Novara, Custoza e Lissa, scornata dalla disfatta di Adua, invischiata nella guerriglia in Cirenaica, rischiava di rimanere tagliata fuori. Ci pensarono ad aiutare il Governo a tenere in pugno la Nazione, i tanti parolai dell’epoca. Un pugno di letterati, una minoranza numericamente insignificante di intellettuali però capace di esaltare le folle. C’era la Folgore Futurista con l’emozione gridata, il «gesto artistico», l’esaltazione dell’energia, della velocità, delle parole in libertà. Poi emerse la figura di Gabriele D’Annunzio con il famoso discorso del 5 maggio dallo «scoglio di Quarto» per celebrare l’anniversario della partenza di Garibaldi con i suoi Mille verso la Sicilia. Un momento clamoroso, quello di maggior portata fra gli intellettuali a sostegno dell’entrata in guerra dell’Italia. Un fatto nuovo, inedito, perché fino a quel momento gli uomini di cultura avevano affidato i loro impeti aggressivi agli scritti e alle conferenze, senza scendere fra il popolo. Come ha scritto la professoressa Maria Garbari in un saggio pubblicato sull’Adige di martedì 5 maggio 2015.

Nel resto dell’Europa gli intellettuali si erano già militarizzati impugnando la penna anziché il moschetto ma senza affacciarsi sulle piazze. In Italia poeti, scrittori, i futuristi da Marinetti a Boccioni a Sironi mobilitarono le città e a Quarto per sentire il Vate si raccolsero duecentomila persone. In prima fila Cesare Battisti con il gruppo dei trentini fra i quali Ezio, Tullio e Mario Garbari fuorusciti in Italia e dei triestini accorsi ad ascoltare la «Orazione per la sagra dei Mille» del poeta sommo arrivato da Parigi dove il Governo francese gli aveva cancellato i molti debiti. Appunto a Quarto il Poeta cominciava il suo straordinario percorso perennemente in bilico fra l’arte e il pugnale destinato a concludersi nel monumento del Vittoriale degli Italiani sul Lago di Garda.

A Quarto D’Annunzio attendeva il re, ma Vittorio Emanuele III non si fece vedere: il 5 maggio c’era ancora una trattativa con Berlino che ha l’amaro sapore dell’ultima beffa o, se vogliamo, della grande confusione che regnava a Roma. La giornata di Quarto, ancora abbastanza viva nella memoria nazionale, è il culmine dell’epoca della retorica del «sacro egoismo», delle «aspirazioni nazionali». Non importa se l’esercito italiano è il più modesto tra tutti quelli delle potenze europee, se l’industria nazionale è agli albori, se il generale Luigi Cadorna destinato a guidare le forze armate fino alla tragedia di Caporetto non riesce e non vuole trovare un coordinamento con il Governo. Il nostro capo di Stato maggiore non aveva mai pensato alla possibilità della rottura della Triplice Alleanza e di condurre una guerra a fianco dell’ Intesa, né il Governo aveva preso contatti con lui quando si decideva la neutralità né il generale si era interessato all’indirizzo politico. Cadorna prepara il suo piano di guerra a fianco di Berlino e Vienna, ignorando intenzioni ed obiettivi politici. Non conosce neppure i tempi dell’intervento, è troppo orgoglioso per chiederli al Governo né il Governo si è curato di avvertirlo della scelta neutrale: il capo di stato maggiore lo apprenderà, almeno secondo la tradizione, dalle edizione straordinarie dei giornali.

Sembra una comica. In realtà è una tragedia. Il primo agosto Franz Conrad von Hötzendorff  capo di stato maggiore dell’esercito austro-ungarico scrive a Cadorna che «per la situazione diventata improvvisamente molto seria» bisogna destinare all’Austria le forze in eccesso dopo quelle inviate in Germania contro i francesi. Ma nello stesso giorno il Consiglio dei ministri italiano decideva per la neutralità; a Berlino e Vienna, nella certezza della schiacciante superiorità militare, non si parla di tradimento e si fa sapere a Roma che se l’Italia si unirà agli Imperi centrali otterrà la Savoia, Nizza, la Tunisia e altro ancora. Non il Trentino, ovviamente.

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Dal canto suo il generale Cadorna, questo lo scrive Piero Pieri nel libro «L’Italia nella prima Guerra Mondiale», pensava che, dichiarata la neutralità, l’esercito venisse subito mobilitato contro l’Austria, e questo a tre giorni di distanza dalla proposta di scagliarlo contro la Francia. L’Intesa accoglie con cautela la notizia. A Parigi la neutralità italiana è molto sospetta dati i precedenti triplicisti e la certezza che Antonio Salandra, pugliese, professore di diritto all’Università di Roma si è sempre dichiarato triplicista convinto. Comunque Raymond Poincaré, il presidente della Repubblica francese, promette all’Italia Valona e libertà d’azione nell’Adriatico e sguarnendo le Alpi dirotta le truppe contro i tedeschi. Il 4 agosto il ministro degli esteri russo getta sulla bilancia, oltre a Valona, il Trentino. Non si parla di Trieste, neppure del confine al Brennero. In verità siamo agli inizi del grande mercato che si complica quando a settembre, quindi 40 giorni dopo l’inizio della guerra, l’avanzata tedesca è fermata in Francia sulla Marna e i russi invadono la Prussia orientale.

Preoccupa la condizione del Regio Esercito. Doveva essere il crogiolo di fusione degli Italiani unificati da pochi decenni, era lo strumento di difesa dello Stato non solo dai nemici esterni, ma pure da quelli interni nel mantenimento dell’ordine pubblico, sempre precario, e dell’equilibrio sociale anche quello difficile. Mancava un piano di guerra contro l’Austria e Cadorna pensava di marciare su Lubiana con lo spirito delle battaglie ottocentesche trascurando il Trentino dove, nel maggio del 1916 arrivò la prima catastrofe. Di certo non poteva prevedere che la guerra sarebbe diventata giorno dopo l’altro, sempre più tecnica, meccanizzata, sostenuta dallo sviluppo industriale che s’andava trasformando, che assorbiva quantità enormi di materie prime. Una guerra di materiali e di invenzioni – i sottomarini, i gas, i dirigibili, gli aeroplani – non solo una guerra di logoramento che con le sue battaglie sanguinosissime e l’altissimo numero dei morti e dei feriti creava nuovi problemi mai affrontati prima d’ora: i servizi ospedalieri destinati a diventare giganteschi, il recupero alla vita sociale dei feriti, dei mutilati, l’assistenza alle famiglie di caduti, agli orfani, le pensioni di guerra, la questione, enorme, dei reduci cha avevano imparato solo il mestiere delle armi e, finita la guerra, faticheranno a tornare alla vita civile.

Si va un po’ indietro nel tempo, al finire dell’aprile del 1914. Il generale Alberto Pollio, predecessore di Cadorna – Pollio morirà il 28 giugno del 1914 nel giorno di Sarajevo, d’infarto, ma non si esclude addirittura l’omicidio – aveva dichiarato all’addetto militare tedesco a Roma, che l’Italia era pronta, secondo il dettato della Triplice Alleanza, a mandare i suoi soldati a difendere l’Austria «se la Serbia le piomba alle spalle». L’accordo risaliva al 1882 e firmato da Otto von Bismarck e da Francesco Crispi prevedeva di trasferire un’armata italiana sul Reno, a fianco dei tedeschi, in una guerra contro la Francia. Prevedeva che la radunata sul famoso fiume delle truppe italiane – sei corpi d’armata e tre divisioni cavalleria – doveva avvenire attraverso le ferrovie austriache. Patto sempre ben presente visto che il 18 dicembre del 1913 a Roma, al Ministero della Guerra, si esamina la situazione europea. Luigi Cadorna afferma che «la nostra cavalleria è assolutamente esuberante per una campagna attraverso le Alpi, Pollio prende atto che i militari italiani sono riluttanti ad andare a combattere contro i russi» gli alleati dei francesi, «e conviene che la cavalleria rimanga sulla frontiera francese» decidendo che la flotta italiana e quella austriaca si riuniscano in un porto siciliano per attaccare la marina francese. In quella riunione non si tenne conto della potenza navale inglese.

Sarajevo, la nota di Vienna inaccettabile a Belgrado, i cannoni d’agosto, la guerra. Il 31 luglio Cadorna manda al re una memoria per indicare il piano di trasferimento delle truppe italiane sul Reno e Vittorio Emanuele l’approva. Ma ci si accorge che se l’Italia entra in guerra contro la Francia, le sue lunghissime e indifese coste costellate dalle città sono esposte agli attacchi delle flotte francesi ed inglesi. Ci si accorge anche che «l’aggressione tedesca è intesa a stabilire un schiacciante egemonia teutonica sull’Europa», «che in un paese come l’Italia non è possibile fare una guerra contro la volontà e il sentimento della nazione» e che «i costi e i sacrifici di una guerra ritarderebbero di mezzo secolo l’incremento della ricchezza generale del paese, aggravando il malcontento sociale e mettendo a rischio le istituzioni, la Casa Savoia, insomma la monarchia».
Nel Regno rimbombava ancora la Settimana Rossa dove si era gridato viva la repubblica, issato sui municipi la bandiera rossa, preso a sassate i militari, inneggiato alla rivoluzione, gridato abbasso il re.

L’Italia sceglie la neutralità, garantendola «benevola» nei confronti di Vienna e Berlino e comincia a chiedere «compensi», primo fra tutti il Trentino nella consapevolezza che mai l’Austria avrebbe ceduto l’importante porto di Trieste, lo sbocco ai mari del sud dei popoli tedeschi. Il 2 agosto l’ambasciatore Giuseppe Avarna duca di Gualtieri comunica ad Antonio Paternò Castello, marchese di San Giuliano, il ministro degli Esteri liberale e anticlericale, che Francesco Giuseppe avrebbe preferito abdicare piuttosto di cedere il Trentino «facente parte integrante dei suoi Stati» aggiungendo che la guerra «è iniziata per mantenere l’integrità e la solidità dell’Impero e sarebbe un controsenso cedere il Trentino che ne è una delle regioni più antiche e fedeli».

Si parla di terre. Non si parla di popoli. L’ Italia vuole il Trentino senza tener conto che la maggioranza dei trentini non vuole l’Italia e il ministro ungherese Istvan Tisza reagisce con durezza alle richieste romane: «L’Italia è militarmente debole e codarda», aggiungendo che il vero motivo per cui non si è schierata con gli alleati, è il timore delle ritorsioni militari ed economiche da parte di inglesi e francesi. Sette giorni più tardi, il 9 agosto, il ministro San Giuliano romperà ogni indugio e comincerà i primi contatti con Londra avvertendo Salandra che «si può cominciare a prevedere sin da ora, se non la probabilità almeno la possibilità che l’Italia debba uscire dalla sua neutralità per attaccare l’Austria».
Si cerca di capire cosa pensano gli italiani e vengono a galla - francamente non si comprende come è stata condotta l’analisi - tre tendenze. La più forte è per la neutralità, la più debole ci vorrebbe schierati con l’ alleata Austria e la maggioranza vorrebbe la guerra all’Austria, lo storico nemico. Per la neutralità si schierano i socialisti o meglio, il Partito socialista ufficiale. La guerra appena iniziata aveva inferto un durissimo colpo alla seconda Internazionale perché subito i socialisti destinati, secondo il proclamato impegno politico ad impedire il conflitto, si trovarono in prima linea, mobilitati o volontari, per difendere le rispettive nazione in pericolo.

In Italia i socialisti rimasero fedeli agli enunciati principi: la guerra era una lotta fra teste coronate,
capitalisti e imperialisti, non avrebbe risolto i problemi esistenti, al proletariato avrebbe portato solo rovine, lutti, dolori. Fin dal 26 luglio il direttore dell’«Avanti!» quel Benito Mussolini che nel 1909 era stato giornalista a Trento e bene conosceva l’anima trentina devota alla chiesa, fedele all’Imperatore e, nella maggioranza critica nei confronti del Regno d’Italia, aveva lanciato il suo grido: «Abbasso la guerra», «né un uomo né un soldo e se il Governo spregiando il moto unanime dell’opinione pubblica si getterà in nuove avventure, la tregua d’armi annunciata da noi dopo la Settimana Rossa, sarà finita e ricominceremo con audacia maggiore la nostra guerra».
Poi passera a sostenere una nuova «filosofia»: quella che contempla il transito dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante per arrivare il 15 novembre a sostenere sulle pagine del «Popolo d’Italia» la necessità della guerra. Certamente Parigi, saldati i debiti di D’Annunzio, ha pagato Benito Mussolini che, lasciato l’«Avanti!» con i soldi francesi fonda «Il Popolo d’Italia» il giornale interventista. Dunque Mussolini dopo aver sostenuto la neutralità, l’antimilitarismo, la lotta alle teste coronate con la particolare virulenza del suo linguaggio, due mesi dopo aver minacciato la rivoluzione del proletariato se l’Italia avesse fatto la guerra, minacciava la rivoluzione se la guerra non si faceva.

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Il Governo ha una convinzione e una certezza: la neutralità indebolirà l’Italia mettendo a rischio la monarchia. Se Germania ed Austria vinceranno, Vienna invaderà l’Italia per riprendersi il Veneto e Venezia, magari la Lombardia. E un discendente di Casa Savoia non si schiererebbe mai con gli austriaci mentre il re è consapevole che l’alleanza con l’Austra è un trattato di teste coronate, non un’amicizia di popoli in verità mai coltivata.

La morte di San Giuliano muta radicalmente il quadro politico; Sidney Sonnino diventa ministro degli Esteri e con lui la neutralità italiana diverrà «vigile» e poi «armata». Ricompare sulla scena Giovanni Giolitti a dire che «se la guerra finisce senza che noi riusciamo a risolvere i nostri problemi, specie quello dei confini con l’Austria» che figura facciamo? Ricorda che siamo legati da trent’anni con un trattato. «Cosa si può pensare dall’altra parte senza la brutta taccia di tradimento?». Francamente quella è la prima volta che il termine «tradimento» risuona nelle stanze del Governo mentre Cadorna si prepara ad attaccare l’Austria, secondo un piano fallimentare senza cercare di conoscere, ma forse sono gli altri che non lo vogliono informare perché non si fidano dell’Italia, come si combatte una guerra moderna, soprattutto cosa si deve fare nelle trincea, come si devono affrontare reticolati, mitragliatrici, artiglierie e tutti i nuovi strumenti di morte e distruzione.

Questo è il clima della vigilia poi definita sacra che non si cura di un particolare. Il 15 febbraio del 1915 si riprendono i contatti con l’Intesa e pochi si accorgono che da quella data al 24 maggio, il Regno sarà alleato dei due schieramenti continuando a chiedere ad entrambi i blocchi in guerra, garanzie e compensi territoriali.
All’Italia gli Alleati offrono il confine fino al Monte Nevoso, l’intero possesso della Dalmazia, dell’Albania, delle isole del Dodecanneso, il Trentino, Trieste. Parigi farebbe di tutto per vedere l’Italia schierata contro gli Imperi Centrali. Trattative segretissime, ignote al mondo politico italiano, ai serbi, a Cadorna. Si tratta per il possesso di insignificanti isolette della costa dalmata; Londra, Parigi e i russi dicono di sì alle richieste di Roma pur di convincere l’Italia ad aprire un altro fronte.
La Germania si fa in quattro e convince Vienna ad offrire all’Italia il Trentino, correzioni di confine lungo il fiume Isonzo garantendo all’Austria libero accesso ai Balcani e un bacino carbonifero nella zona danubiana mentre in Italia i grandi giornali convincono i lettori che la neutralità è il suicidio della nazione. È il momento del massimo impegno dell’interventismo di Cesare Battisti nelle piazze d’Italia, ma anche quello pacifista di Alcide Degasperi ricevuto il 16 marzo da Sonnino.

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Due trentini. Due giornalisti. Due avversari politici. Il socialista Battisti vuole la guerra per debellare il militarismo tedesco e nella convinzione che la fine delle ostilità porterà il potere al popolo. Degasperi, cattolico, cerca la pace. È già andato nel novembre del 1914 da Benedetto XV per cercare la tregua di Natale. Adesso a Sonnino, che lo descrive nel suo diario «cattolico di sentimenti italiani», racconta di un Trentino diviso «alcuni frementi per l’italianità, gli altri molto calmi ma non male disposti». Degasperi ha capito che in caso di guerra la sua terra sarà stritolata come in effetti lo fu. Cerca una mediazione, un’intesa. Tenta di salvare il suo paese dalla devastazione.

Finalmente il 27 marzo Vienna annuncia di essere disposta a cedere il Tirolo meridionale, compresa la città di Trento. Francesco Giuseppe è stato convinto dalle pressioni di Berlino. Il confine da Borghetto si sposta a Lavis, Madonna di Campiglio resta austriaca. Però Sonnino tergiversa. Ha capito che il consenso politico in Parlamento è incerto se non contrario, che l’esercito non è pronto, che l’accordo con Londra è incompleto, che la Germania può sferrare un colpo decisivo e vincere la guerra. Comunque il 9 aprile l’Italia alza la posta. Garantendo al neutralità assoluta fino alla fine della guerra chiede, oltre a Trento, Bolzano e Merano andando contro il principio delle nazionalità che era lo spirito del Risorgimento, Trieste come città-stato autonoma, senza presenza militare. La storia segue il suo corso e il 26 aprile, in gran segreto - forse uno dei pochi segreti mantenuti in Italia - si firma il Patto di Londra con il quale l’Italia si impegna ad entrare in guerra a fianco dell’Intesa entro un mese. È a questo punto che Sonnino truffa il Consiglio dei ministri. Il primo maggio illustra ai parlamentari la necessità di interrompere la Triplice Alleanza per poter stringere un patto con l’Intesa quando quel patto, quell’intesa, è stato firmato 5 giorni prima.
Il 4 maggio l’ambasciatore italiano a Vienna annuncia che l’Italia ha deciso di uscire dalla Triplice Alleanza. I francesi si fidano poco e così un giornale di Parigi annuncia i termini del patto, soprattutto che l’Italia entrerà in guerra il 24 maggio. Ancora una volta Cadorna è all’oscuro di tutto.
È il momento del discorso di D’Annunzio a Quarto. È il momento del «parecchio» di Giovanni Giolitti. Con le ultime concessioni tedesche si ottiene molto salvando la Nazione dalla guerra. Gli risponde il Poeta: il 13 maggio con un travolgente comizio, incita la folla a far giustizia sommaria del «mestatore di Dronero», «quel vecchio boia labbrone le cui calcagna di fuggiasco sanno la via di Berlino». La casa romana di Giolitti è presidiata dalla cavalleria, dal Campidoglio Cesare Battisti grida davanti ad una folla strabocchevole «alla frontiera, con la spada e con il cuore». L’esercito marcia verso l’Isonzo. Anche l’Italia ha raggiunto il suo posto nella carneficina.

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