Cooperazione, i nodi rimasti irrisolti

Cooperazione, i nodi rimasti irrisolti

di Pierangelo Giovanetti

La modifica «ad personam» dello Statuto della Cooperazione per garantirsi il quarto mandato da presidente, non ha portato fortuna a Diego Schelfi. Come ammette lui stesso ad amici e conoscenti, è stato un errore evidente. E il risultato fallimentare del suo quarto mandato è lì a dimostrarlo. Tutti i problemi che tre anni fa erano sul tavolo della Federazione sono rimasti sul tappeto, aggravati. L'aver cercato di accontentare i suoi grandi elettori dei consorzi di secondo livello invece di fare delle scelte precise, ha peggiorato la situazione incancrenendo le difficoltà senza arrivare a soluzione alcuna.


Di fronte al peggioramento dei conti di famiglie cooperative e casse rurali, invece di spingere per riorganizzare il settore dando una regia e una visione di futuro, Schelfi ha preferito invocare l'intervento della Provincia. L'idea che i problemi della cooperazione si risolvano con il «protezionismo» impedendo alla concorrenza di aprire negozi e di offrire prezzi più vantaggiosi è emblematica dell'incapacità di affrontare la situazione, e di proporre al sistema delle cooperative un progetto, una strategia di gruppo, un'idea di sviluppo magari alleggerendo i costi della struttura e adottando centrali d'acquisto più vantaggiose come ha fatto il gruppo cooperativo Dao-Conad che aumenta il fatturato e distribuisce utili nonostante la crisi. Non è più sufficiente affidarsi alle omelie «contro il turbocapitalismo», come Schelfi ha fatto nell'appello inviato tre settimane fa alla Comunità della Val di Sole per chiedere di bloccare il progetto concorrente di Poli, e ritenere con questo di aver risolto il futuro delle cooperative di consumo.


O presentare ricorsi e controricorsi come ha fatto la Famiglia cooperativa di Pinzolo per bloccare l'apertura a Spiazzo di un negozio della concorrenza, e ritenere che così il problema è risolto. A tutto danno dei consumatori.
La conclusione della lunga presidenza Schelfi, e la necessità di voltar pagina, offre al mondo della cooperazione un'occasione preziosa di dibattito - aperto e trasparente - (e questo giornale si offre di ospitarlo) con e fra cooperative e soci per delineare la rotta futura del movimento, che rappresenta una fetta importante dell'economia trentina.

Quattro sono i nodi da affrontare.
Il primo è il ruolo della Federazione.
La telenovela della LaVis è emblematica di quanto la Federazione non sia stata - e non sia - in grado di gestire le situazioni. Una cantina sociale decide di far concorrenza ad un'altra cantina sociale, s'inventa colosso del commercio dei vini, s'indebita fino al collo scaricando una buona fetta delle sue scelleratezze sul contribuente trentino, e la Federazione non dice niente. La vigilanza non si accorge di nulla. Poi, quando c'è il patatrac, indica la strada da seguire disegnando a buoi scappati dalla stalla il riordino del settore vino, e la LaVis se ne fa un baffo, e va avanti per la sua strada, invocando altri soldi dalla Provincia.
Ma qual è la «mission» che ha la Federazione nel settore della cooperazione? È in grado di delineare un disegno, imprimere una regia, in

dirizzare gli investimenti delle singole cooperative, in una parola tracciare la strada? Se si guarda a quanto è avvenuto nel settore del consumo in questi anni, la risposta è no. Basta vedere come ciascuna famiglia cooperativa sia andata per conto suo, facendo investimenti dove non andavano fatti, o creando megastrutture che oggi appesantiscono i costi come ha fatto il Sait. Ma il discorso si può estendere anche alle cantine sociali, ai poli latte, alle coop agricole, alle casse rurali. E non si dica che ciascuna cooperativa è autonoma di fare ciò che vuole, perché non è vero. Quando Pierluigi Angeli decise che le Coop si salvavano solo se si univano e benedisse il matrimonio con le coop rosse, indicò una strada, e tutto il movimento la seguì. La mancanza di «potere di controllo» e di «guida politica» della Federazione è oggi un problema che i quattro mandati di presidenza Schelfi lasciano irrisolto. E con esso l'intero ridisegno istituzionale di governance della Cooperazione, stabilendo con chiarezza il ruolo dei consorzi di primo grado e di secondo livello.


Il secondo nodo cruciale è l'autoreferenzialità della classe dirigente, e dei metodi di selezione. L'indicazione a porte chiuse, bell'impacchettata, del successore di Schelfi, senza coinvolgimento delle cooperative e dei soci («ci hanno detto: scegliete voi la persona giusta», ha spiegato il presidente uscente) è paradigmatica del sistema di cooptazione che vige nella Cooperazione. Non c'è una confronto alla luce del sole, fra posizioni diverse, dove ciascuno illustra la propria agenda e il proprio programma ai soci e alle cooperative, e poi si sceglie chi è più adatto. Non si parla di cosa si vuol fare, presentandolo all'opinione pubblica, visto che in Trentino vi sono 100.000 soci cooperatori e il resto della popolazione è comunque coinvolto nelle scelte che la Federazione farà. No, un circolo ristretto ha deciso al proprio interno, chi dovrà «continuare» il mandato di Schelfi.


Stessa fragilità nella selezione della classe dirigente avviene a tutti i livelli, nell'individuazione dei presidenti delle cooperative e della casse rurali, ma anche nella dirigenza interna, nella selezione dei direttori, nella loro formazione, eccetera. E quindi nelle decisioni che vengono prese nei momenti cruciali. Un terzo elemento di debolezza rimasto irrisolto è la dipendenza dall'ente pubblico, dai soldi della Provincia, dal protezionismo preteso da comuni e comunità di valle. Abituati alle lunghe vacche grasse passate, quando Provincia e Regione pagavano perfino le celebrazioni che spesso erano solo autocelebrazione (30.000 euro per festeggiare l'anniversario della prima coop), il sistema fatica a capire che i tempi sono cambiati. Non basta dire che Dellai era meglio di Rossi, e lamentarsi che «piazza Dante non ci ascolta più come una volta», per fronteggiare il domani.


E nemmeno continuare a ripetere come fa Schelfi «che in Trentino serve meno concorrenza e più intervento del pubblico nell'economia». La dipendenza dal pubblico ha costituito negli anni il brodo colturale in cui sono maturate scelte «non di mercato» o «economicamente non sostenibili» da parte di cantine, caseifici o anche casse rurali e famiglie cooperative. Ha alimentato cioè una sorta di irresponsabilità del sistema. Invece di indicare percorsi nuovi, razionalizzare le strutture, contenere i costi e inventare formule diverse, si invoca il soccorso dell'ente pubblico in nome dei «valori». Tirando per la tonaca il povero don Guetti che meriterebbe una moratoria di almeno dieci anni dal nominare invano il suo nome per coprire la mancanza di fantasia e di idee attuali.


Infine il ruolo dei soci, che in teoria dovrebbero essere gli azionisti, e non vengono coinvolti nemmeno su una scelta importante come il cambio di vertice alla Federazione. Soci che non sono informati o non hanno gli strumenti per controllare e accorgersi di quando il management della loro cassa rurale non ha la situazione sotto controllo. O non sono in grado di cambiare la guida quando non funziona, e sono troppo deboli per incidere seriamente.


Questi sono nodi aperti su cui si dovrebbe discutere per individuare il successore di Schelfi. Chiarendosi una volta per tutte se la Cooperazione in Trentino si debba organizzare come impresa, azienda efficiente, innovativa anche sfruttando il proprio bagaglio sociale e ideale, il radicamento sul territorio fra i soci e i consumatori, o si debba considerare «ente pubblico», assistita, protetta, privilegiata nei piani regolatori dei comuni, sempre col cappello in mano. Insomma: un sistema aperto e creativo (e utile al Trentino) o un sistema chiuso, costituito da un circolo di persone autoreferenziali, sempre lo stesso e che promuove se stesso.

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