Giustizia / Il caso

Al via il processo sull'assassinio di Giulio Regeni, i genitori del ricercatore: "Da 8 anni aspettavamo questo momento"

Imputati in contumacia quattro agenti dei servizi segreti egiziani accusati del sequestro e dell'omicidio del giovane italiano avvenuto al Cairo nel 2016

ROMA. "Erano otto anni che aspettavamo questo momento. Finalmente speriamo di potere avere un processo contro chi ha fatto tutto il male del mondo a Giulio". Lo ha detto l'avvocato Alessandra Ballerini, legale assieme al collega Giacomo Satta, dei genitori di Giulio Regeni, al termine della prima udienza del processo a carico di 007 egiziani accusati del sequestro e dell'omicidio del ricercatore italiano ucciso al Cairo nel 2016.

Nel corso del processo sono state avanzate dai difensori una serie di eccezioni per chiedere la nullità del decreto che dispone il giudizio. I giudici scioglieranno la riserva il prossimo 18 marzo. Fuori dalla cittadella giudiziaria di Roma un sit in di sostegno alla famiglia di Regeni.

Il procedimento che potrebbe veder sfilare, in qualità di testimoni, ex premier, ex ministri, e funzionari che hanno ricoperto, all'epoca del drammatico omicidio, ruoli apicali nei servizi di sicurezza e alla Farnesina.

Le parti processuali hanno depositato all'attenzione dei giudici della prima Corte d'Assise la lista testi chiedendo di convocare a piazzale Clodio anche l'attuale presidente della Repubblica egiziana, Abdel Fattah al-Sisi. Tra le persone "citate" e sui quali dovranno esprimersi i giudici anche l'ex premier Matteo Renzi e l'ex ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni. E ancora: Marco Minniti, ex responsabile della autorità delegata per la sicurezza della Repubblica, i tre capi dei servizi segreti che si sono succeduti nel tempo e l'allora segretario generale della Farnesina, Elisabetta Belloni oltre all'amministratore delegato dell'Eni, Claudio Descalzi.

Nei confronti degli imputati, a seconda delle posizioni, le accuse sono di concorso in lesioni personali aggravate, omicidio aggravato e sequestro di persona aggravato. Al termine di un tortuoso iter giudiziario e dopo che la Consulta, nel settembre scorso, aveva fatto uscire il procedimento dal pantano in cui era finto a causa dell'assenza degli imputati, il gup di Roma ha mandato a giudizio il generale Tariq Sabir, i colonnelli Athar Kamal e Uhsam Helmi e il maggiore Magdi Ibrahim Abdel Sharif. La decisione della Consulta ha, quindi, impresso una svolta al procedimento dichiarando illegittimo l'art. 420-bis, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell'imputato, è impossibile avere la prova che quest'ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo.

Una decisione che interviene dichiarando non legittimo l'articolo nella parte in cui non prevede che il processo possa andare avanti per i delitti di tortura definiti dall'art. 1, comma 1, della Convenzione di New York e cioè commesso da funzionari pubblici o da chi comunque agisce a titolo ufficiale, e deve esserci un atteggiamento ostruzionistico da parte dello Stato di appartenenza degli imputati che renda impossibile provare che questi siano a conoscenza della pendenza del procedimento a loro carico. In base a quanto stabilito dalla Consulta è sufficiente che gli imputati, così come già accertato, siano a conoscenza dell'"esistenza" del procedimento.

In questo modo è stato superato l'ostruzionismo messo in atto dalle autorità egiziane. Nel processo si è costituita parte civile la Presidenza del Consiglio che ha sollecitato, in caso di condanna degli imputati, un risarcimento di 2 milioni di euro. Nell'atto di costituzione di parte civile l'Avvocatura dello Stato scrive che si è in presenza di "un orrendo crimine" che "ha colpito profondamente la comunità nazionale, per le incomprensibili motivazioni e per le crudeli modalità di esecuzione".

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