«Pd ridotto ad appendice di Renzi» La denuncia dei nuovi fuoriusciti

«Sabato (7 novembre), al teatro Quirino, lanceremo l’inizio di un nuovo percorso a sinistra». Lo annuncia il deputato Alfredo D’Attorre ai giornalisti che lo interpellano all’uscita dalla Camera dopo l’annuncio del suo addio al Pd.

Il bersaniano spiega che con i colleghi Galli e Folino aderirà all’iniziativa di Sel e Stefano Fassina per nuovi gruppi parlamentari della sinistra. A chi gli fa notare che l’ex dem Pippo Civati si è tirato fuori, risponde: «anche se non aderirà subito ai gruppi, credo che con Civati le strade si incontreranno».

«La vicenda Marino è il segno di come viene gestito il Pd: senza organi democratici, con decisioni del segretario che devono essere eseguite da tutti», denuncia D’Attorre.

«Il Partito democratico è stato ridotto ad appendice inerte del leader: comitato elettorale e ufficio stampa», scrivono, parlando di Matteo Renzi, gli ex parlamentari Pd Alfredo D’Attorre, Stefano Fassina, Vincenzo Folino, Carlo Galli, Monica Gregori e Corradino Mineo nel documento «Ricostruire la sinistra, per il lavoro e per l’Italia».

«La mutazione genetica del Pd, nato come forza centrale del centrosinistra italiano, è purtroppo ormai compiuta.

L’esperienza renziana e le mutazioni introdotte non saranno una parentesi. Esse hanno ormai alterato in maniera irreversibile la percezione del Pd e della sua funzione nell’immaginario collettivo. Siamo fuori dalla cultura istituzionale dell’Ulivo e del centrosinistra», affermano i parlamentari.

«Gli organismi dirigenti - sottolineano - sono diventati rappresentazioni a uso streaming, riuniti ogni volta che è servito imporre un voto su una decisione già assunta dal segretario-premier o disporre di un palco dal quale lanciare un annuncio all’esterno».

«L’obiettivo è mantenere in vita la parola, il concetto e l’esigenza di sinistra. Ma che non sia nostalgia della ditta, né minoritaria. La differenziazione è su come ottenere il risultato, stando dentro o fuori dal Pd», osserva Carlo Galli, politologo e deputato del Pd di area cuperliana, spiega la divergenza tra chi, come lui, Alfredo D’Attorre e Vincenzo Folino, ha deciso di uscire dal Pd e chi invece, a partire da Bersani e Cuperlo, non intende uscirne.

«Bersani - racconta il bersaniano D’Attorre - ha espresso rispetto per la mia scelta pur non condividendola. Lui più di tutti vuole bene al Pd e sarà l’ultimo a rassegnarsi. Gli ribadisco piena gratitudine per ciò che ha fatto e per quanto mi riguarda che la decisione di lasciare viene dopo un lungo tormento ma mi è sembrato che non ci fossero alternative per la piega che ha preso il Pd con Renzi».

«Erano venute meno - spiega ancora D’Attorre - anche le possibilità di verifica interna al partito. Restare nel Pd senza possibilità di incidere significa sostenere un progetto davanti agli elettori a rischio di cancellare la sinistra dal Paese».

«C’è di nuovo, nel presentare come centrali le idee del lavoro nel soggetto che nascerà, che sono tanti anni che questa centralità sembra essersi persa», sottolinea Galli. Il nuovo soggetto della sinistra avrà anche «radici uliviste», per il suo pluralismo. «Prevedo - afferma D’Attorre - che ci saranno settori sempre più consistenti del Pd che sia nel territorio che nel Parlamento vorranno dare un contributo».

«L’uscita dal Pd - sottolinea Galli - non è un colpo di testa: noi non crediamo al teorema di Renzi per cui la sinistra è incorporata nel Pd e che fuori non ci sia spazio per la sinistra. È chiaro che c’è spazio a sinistra. Il nostro compito è occuparlo».
«A Enrico Rossi dico che l’idea che ci possa essere dibattito nel Pd rischia di essere una finzione priva di sostanza», conclude D’Attorre.

Duro Corradino Mineo, senatore e già noto giornalista Rai: «Diciamo che Matteo Renzi non ha stile. Non ho mai manifestato l’intenzione di dimettermi dal Senato, se non in un sms che mandai proprio a lui, disgustato dall’attacco volgare e strumentale che mi aveva mosso davanti all’assemblea del Pd, dopo la vittoria alle Europee.
Fu poi Gianni Cuperlo, a riprendermi per i capelli e spiegarmi che la politica, ahimè, è anche questo - scorrettezza cialtrona - e che bisogna saper resistere. Grasso mi ricordò che avevo un mandato da onorare. Ma Renzi non si fa scrupoli, rivela conversazioni private, infanga per paura di essere infangato».

Mineo ribatte a Matteo Renzi che lo critica nel libro di Bruno Vespa per non essersi dimesso anche da senatore.

«E lui - prosegue Mineo - sa che io so. So quanto si senta insicuro quando non si muove sul terreno che meglio conosce, quello della politica contingente. So quanto possa sentirsi subalterno a una donna bella e decisa. Fino al punto di rimettere in questione il suo stesso ruolo al governo. Io so, ma non rivelo i dettagli di conversazioni private. Non mi chiamo Renzi, non frequento Verdini, non sono nato a Rignano».

«Quanto alla “poltrona”, a differenza forse di qualcun altro, io non ne ho bisogno. Ho lavorato per 40 anni, salendo passo dopo passo il cursus honorum, da giornalista fino a direttore.
Probabilmente ho ancora “mercato”, potrei tornare a fare quello che ho dimostrato di saper fare. Non ora, perché ho preso un impegno accettando la candidatura che Bersani mi propose nel 2013, e lo manterrò, quell’impegno, in barba a chi vorrebbe "asfaltare" il dissenso», prosegue.

«Quanto ai bambini autistici, è stato Renzi a strumentalizzarli nel modo più squallido per “spianarmi”. Li ha usati per strappare un applauso in assemblea e non ha fatto poi seguire un solo provvedimento per andare incontro alle tante famiglie in difficoltà. I fatti hanno la testa dura», conclude Mineo.

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