Ricordi di Arcipelago: ci passò tutta la città Serata amarcord al Barrio

di Matteo Lunelli

La birra a millecinquecento lire, le partite a Risiko o a scacchi, quel poggiolo che non è mai crollato, quasi per miracolo. E le tisane e le mostre, i concerti e il teatro, gli amori sbocciati e quelli terminati, le mani tese a chiunque, perché al bancone non ci sono poveri o ricchi, avvocati o disoccupati, artisti falliti o studenti, bianchi o neri. Solamente persone.

Era l’Arcipelago. Era il circolo in cui è passata tutta quanta la città. Dal 1987 al 1999 un punto di riferimento, un angolo un po’ berlinese e un po’ parigino, nascosto da occhi indiscreti in pieno centro storico. Si entrava da via Belenzani, a un passo dalle stanze del potere, ma nessuno poteva sapere che eri lì. Soprattutto se erano le due del mattino. Il 19 dicembre 1999 le serrande (che non c’erano, ma si usa dire così) si abbassarono per sempre, chiudendo nella sala rosa e nella sala grande tante storie e tante chiacchiere, a volte sogni che vengono fuori grazie a un bicchiere di troppo, a volte utopie filosofiche che vanno sorseggiate con una tisana.

Dietro a tutto questo, e dietro a quel bancone, sei donne. Carla Casetti, Chiara Videsot e Rita Ansuini prima, dal 1987, e poi dal 1993 al 1999 Cristiana Pivari, Luciana Ceh e Emilia Schiantarelli. Lavoratrici, mamme, mogli, adesso nonne, che hanno spillato birre e farcito panini per intere generazioni. E hanno pure ascoltato gli sfoghi, visto nascere relazioni e permesso a tutti di tirare tardi e vivere la notte in città.

Oggi quei vent’anni senza più l’Arcipelago verranno ricordati alle 18 al Barrio, sia da chi era dietro quel bancone, sia da chi almeno una volta ci è entrato, diciottenne o già padre di famiglia. La festa amarcord (ma senza lacrime e tristezza, solo sorrisi e bei ricordi) si terrà in quello che è il locale che più assomiglia a circolo Arci che non c’è più. «Saremo al Barrio in San Martino - ci racconta Cristiana Pivari - un locale che è nato grazie a due ragazzi che all’Arcipelago ci venivano da giovanissimi, Lorenzo Carlucci e Jacopo Zanolini. C’è un legame affettivo tra Barrio e Arcipelago, ma anche nel programma culturale, nell’essere un luogo per tutti e nell’arredamento ci sono molte affinità. E poi le persone, che in fin dei conti sono le stesse, anche se magari oggi vanno in San Martino con i figli o i nipoti».
I vent’anni dalla chiusura dell’Arcipelago raccontano anche una Trento che non c’è più. Raccontano una società che è cambiata, nei costumi e nelle abitudini, ma anche nei valori. In via Belenzani la porta era aperta per tutti e si trovava sempre qualcuno con cui chiacchierare. I telefonini non esistevano, al massimo il “cazzeggio” notturno era rappresentato da una sfida a scacchi o dalle interminabili partite a Risiko. Anche Francesco Guccini ha cantato quelle situazioni nella sua “Farewell”: «Poi giù al bar dove ci si ritrova, nostra alcova. Era tanto potere parlarci, giocare a guardarci, tra gli amici che ridono e suonano attorno ai tavoli pieni di vino: religione del tirare tardi e aspettare mattino». Era Bologna e non Trento, erano osterie e non circoli, ma le sensazioni erano le stesse.
«Era difficile mandare a dormire alcuni clienti - sorride sospirando Cristiana Pivari - e allora, pur di stare ancora un po’ lì all’Arcipelago, ci aiutavano a fare le pulizie e sistemare. Da quel posto così nascosto ma così vivo sono passati Moni Ovadia e Lella Costa, Claudio Lolli e Bruno Gambarotta, che si auto ridusse il cachet dopo aver visto il circolo. E poi tantissimi gruppi trentini, oltre all’arte di Stefano Cagol e di molti altri ancora. Nella sala rosa, quella per non fumatori, servivamo le tisane, ma poi c’erano il teatro e le mostre, i concerti e le serate. Abbiamo anche fatto qualche buffet dopo un matrimonio. I clienti? Vari e variopinti: da studenti universitari a professionisti, dalla Trento bene a chi il bicchiere di vino doveva scroccarlo per mancanza di soldi».
Oggi, forse, la chiameremmo “movida”. Ma in realtà non c’è termine più errato: ridurre l’Arcipelago a divertimento giovanile sarebbe quasi un insulto. Quel circolo era qualcosa di molto più romantico. E sociale (non certo social). Per entrare ci voleva la tessera, ma far chiudere un occhio alle titolari non era certo un’impresa.
I problemi con il vicinato, in realtà, c’erano anche allora, ma la convivenza era possibile, nel rispetto reciproco.
«A fianco abitava un postino, che si alzava per andare a lavorare praticamente quando noi chiudevamo. A volte i vigili sono venuti, ma tutto si è sempre, o meglio spesso, risolto con un sorriso. La vera angoscia era quel ballatoio pericolante: alla fine ha retto, ma ogni giorno c’era l’ansia e non lasciavamo che troppe persone stessero lì. Il mio “quella volta che”? Ci sono una serie di quelle volte che, ma molte non si possono raccontare. Ci sono invece molti ricordi. Le tante giacche dimenticate nel circolo, e mai reclamate. Una volta le usammo per coprire un barbone che dormiva d’inverno tra via Belenzani e l’ingresso, riparandolo dal freddo. Oppure ricordo i panini, talmente farciti che parevano esplodere: mi pare costassero tremila lire, era un vero affare. E le torte della Luciana, gettonatissime. In questi vent’anni senza Arcipelago tante persone ci hanno detto di rimpiangere quel luogo, che è rimasto nel cuore di tante persone, trentine e non. D’altra parte era come andare a casa di amici».

Quella casa da due decenni è chiusa e non tornerà più. Un’atmosfera simile la si può rivivere al Barrio, in San Martino, grazie allo spirito di chi all’Arcipelago ci è cresciuto. Ai nostalgici non resta che sospirare e sorridere, ripensando ai tempi passati e a “quella volta che” all’Arcipelago, che non può essere raccontata sul giornale ma che vive nei cuori e nelle chiacchiere serali con gli amici. E allora in alto i bicchieri (non più a millecinquecento lire...) e “Farewell” anche all’Arcipelago.

comments powered by Disqus