Legge sul divorzio, ci sono troppe assurdità

L'avvocato Gianfranco de Bertolini interviene sull'Adige per parlare dei limiti della legge sul divorzio. Va ripensata anche per evitare il problema del matrimonio di convenienza. «È evidente che il riferimento al tenore di vita coniugale perpetua oltre il matrimonio le diseguaglianze sociali: chi ha sposato il ricco deve restare ricco, chi ha sposato il povero resta povero. Chi ha sposato il ricco riceve molto, chi ha sposato il povero riceve poco o nulla» I tuoi commenti

divorzio liteIn ogni separazione ed in ogni divorzio sorge il problema, serio, dell'assegno che l'un coniuge, di solito il marito, deve all'altro, di solito la moglie, per contribuire al suo mantenimento. In materia la legge è sintetica. Per la separazione provvede l'art. 156 del codice civile: «Il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall'altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri. L'entità di tale somministrazione è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell'obbligato».
 
Un po' più complesso l'art. 5 della legge sul divorzio: «il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altro un assegno quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive».
 
In entrambi i casi il compito di accordare l'assegno e di fissarne la misura è affidato al giudice, e il giudice provvede secondo i principi che la Corte di cassazione ha elaborato, fino ad oggi, nell'interpretare i due articoli di legge riportati. Questi i principi fondamentali fissati dalla Corte suprema: «L'accertamento del diritto all'assegno divorzile va effettuato verificando l'inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto.
 
A tal fine, il tenore di vita precedente deve desumersi dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall'ammontare complessivo dei loro redditi e dalle loro disponibilità patrimoniali, laddove anche l'assetto economico relativo alla separazione può rappresentare un valido indice di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a fornire utili elementi di valutazione relativi al tenore di vita goduto durante il matrimonio e alle condizioni economiche dei coniugi». Linguaggio involuto, ma con un po' di pazienza comprensibile.
 
Ciò che è detto per il divorzio vale sostanzialmente per la separazione, benché le norme non coincidano esattamente. Il tenore di vita che il coniuge avrebbe potuto godere, se il matrimonio fosse continuato felicemente, rappresenta il parametro decisivo per il riconoscimento del diritto all'assegno e per la determinazione della sua misura. Non il tenore di vita effettivamente goduto, bensì quello che in relazione alle sostanze disponibili si sarebbe potuto realmente ottenere. I coniugi ricchi, ma avari, non se la cavano perciò a buon mercato. Tre considerazioni balzano agli occhi.
 
In primo luogo l'adozione del tenore di vita come punto di riferimento è un'operazione interpretativa discrezionale, se non arbitraria, della giurisprudenza, vale a dire della Corte di cassazione, perché la legge direttamente non vi accenna. La legge menziona solo l'indisponibilità da parte del coniuge di «redditi adeguati» quanto alla separazione, di «mezzi adeguati», concetto più estensivo, quanto al divorzio. «Adeguati» a cosa? Le norme non lo dicono e lasciano all'interprete il compito di rispondere. È evidente, in secondo luogo, che il riferimento al tenore di vita coniugale perpetua oltre il matrimonio le diseguaglianze sociali: chi ha sposato il ricco deve restare ricco, chi ha sposato il povero resta povero. Chi ha sposato il ricco riceve molto, chi ha sposato il povero riceve poco o nulla.
 
La ricerca di buoni partiti e la caccia alle ereditiere continuano ad esprimere una prospettiva realistica, benché discutibile, della società e dell'esistenza. Infine, la conservazione del tenore di vita matrimoniale dopo la rottura del matrimonio appare una chimera per la maggior parte delle famiglie, le cui disponibilità, spesso appena sufficienti per il nucleo unito, non bastano a sostenere dignitosamente due nuclei separati. Anche sulla base di queste considerazioni, una corrente minoritaria di giuristi propone e sostiene una diversa soluzione. L'adeguatezza dei mezzi e dei redditi, cui connettere la sussistenza del diritto all'assegno coniugale e la sua misura, dovrebbe essere quella necessaria e sufficiente per assicurare al beneficiario un'esistenza libera e dignitosa.
 
L'adozione di questo criterio consentirebbe di avviare la realizzazione del precetto costituzionale che impone la pari dignità sociale e l'eguaglianza dei cittadini e dei lavoratori, e di trattare secondo l'identico criterio entrambi i coniugi, quello che riceve e quello che dà. Anche a quest'ultimo dovrebbero essere infatti garantite, nei limiti del possibile, le medesime condizioni minime. Ne nascerebbe per giunta un'assai maggiore certezza del diritto, perché la dignità sociale è un bene comune a tutti, non diversamente valorizzabile a seconda della ricchezza dei coniugi, e ciò comporterebbe una comune misura dell'assegno, determinata in modo oggettivo e generale, ancorché non necessariamente rigido.
 
Ne guadagnerebbe l'amministrazione della giustizia civile perché le liti potrebbero ridursi, ed il Paese si allineerebbe agli Stati che, nel contesto europeo, hanno adottato le soluzioni finora più equilibrate ed efficienti. Un passo simile fu compiuto negli anni '70, quando per il risarcimento del danno alla persona fu sviluppato attraverso il lavorio dei giuristi il metro del danno biologico eguale per tutti, riconoscendo che la salute è un valore comune, garantito ad ognuno con la stessa forza dalla Costituzione. Forse vale la pena di rifletterci.
 
Gianfranco de Bertolini
Avvocato a Trento

 

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