Geriatria trasformata in Covid center, parla il primario

Ai primi di marzo al Santa Chiara arrivò la prima paziente positiva

di Luisa Pizzini

Era l’inizio di marzo quando la prima paziente trentina contagiata da Covid-19, una donna che era stata ad un pellegrinaggio di gruppo ad Assisi, arrivò al S. Chiara. Venne ricoverata in geriatria perché aveva i sintomi di una bronchite. Poi gli accertamenti svelarono il coronavirus ed anche il Trentino entrò nel vortice dell’emergenza sanitaria.

«È già passato un mese? Le assicuro che ho perso il conto, perché sono tornato a casa una volta». Con quest’affermazione Renzo Girardello, nominato primario di geriatria al Santa Maria del Carmine 15 anni fa, rende bene l’idea di quel che sta accadendo nel “suo” ospedale. «Sono di Schio, fino a qualche mese fa facevo avanti e indietro, poi mi hanno dato anche l’incarico di Trento (è primario di geriatria anche al S. Chiara, ndr), e da allora faccio base in città».

Dottore, la prima contagiata arrivò nel suo reparto al S. Chiara.

«Sì, fu ricoverata la notte con un quadro bronchitico. I medici che l’hanno visitata quando è arrivata e la mattina dopo, pur avendo indossato la mascherina, furono messi in quarantena. La signora poi è migliorata e tornata a casa in pochi giorni».

Ve l’aspettavate in quei giorni che sarebbe arrivato il primo caso?

«Non si sapeva ancora bene di cosa si trattava. Adesso sappiamo che non è una banale influenza ma una virosi che colpisce le persone e nel 95% dei casi passa relativamente inosservata ma in una minoranza dà luogo a forme di polmonite interstiziale, per cui la situazione si complica gravemente. I protocolli di cura ora li abbiamo un po’ aggiustati, si usano meno gli antivirali che più di tanto non fanno, ma si usano altri farmaci in base alle condizioni cliniche.
Però spesso ci sono peggioramenti che richiedono interventi con macchinari respiratori, supporti non invasivi o intubazione nei casi pià gravi».

Lei l’hai vissuta su due fronti quest’emergenza: nel reparto di Trento e poi qui a Rovereto...

«Sì, l’impostazione dell’area Covid-19 qui a Rovereto l’abbiamo condivisa con la dottoressa Susanna Cozzio della medicina e il mio collaboratore Sergio Minervini (entrambi purtroppo risultati postivi, ma con i quali continuiamo a collaborare) e con i colleghi della chirurgia e dell’ortopedia che si sono dati molto da fare. Abbiamo riconvertito il primo, secondo, quarto e quinto piano. Siamo riusciti a lavorare insieme ed ha funzionato il fatto che avevamo una massa critica di posti letto per cui abbiamo potuto anche creare dei flussi. I pazienti in ingresso infatti restano in osservazione e gli vengono somministrate cure standard, quelli che peggiorano e che sono candidati a trattamenti piu intensivi vanno al quinto piano, nell’area di medicina ad alta intensità. La maggior parte per fortuna ha un miglioramento e si invia in chirurgia o ortopedia dove, se continua il miglioramento, viene fatta la dimissione qualche giorno dopo secondo criteri condivisi».

E i ritmi lavorativi?

«I miei collaboratori li continuo a stimolare, a sostenere e a ringraziare perchè stanno facendo un gran lavoro. Ma inizio ad avere paura della fatica che stiamo facendo.
Io la mattina alle 7 sono in ospedale e tengo botta fino alle cinque del pomeriggio, poi vado a riposare. Ma su 24 ore è un impegno grosso».

Sono arrivati degli aiuti?

«I colleghi geriatri di Trento hanno fatto subito un passo avanti: sono già tre o quattro settimane che uno o due colleghi vengono, compatibilmente con l’attività. A Trento abbiamo ridotto i posti letto perchè avevamo creato anche lì un’area Covid eventuale che è ancora libera avendo portato il lavoro grosso a Rovereto. È stata una scelta aziendale e credo abbia funzionato».

Il sistema ha retto?

«I primi giorni è stata durissima. Arrivavano una decina di pazienti di giorno, una decina di pazienti la notte. Non è poco anche perchè sono pazienti delicati, che vanno affrontati in un certo modo con dispositivi di protezione adeguati. Per fortuna il clima non era troppo caldo perchè ora iniziamo ad avere problemi. Stare per ore con tute, camici, visiere, occhialoni e cuffie è un lavoro molto duro, ma il nostro mestiere e lo abbiamo scelto».

Avete capito chi si ammala ora?

«Finché il focolaio era in Cina era semplice (ride,ndr). Le cose sono cambiate: col senno di poi quando la situazione è iniziata a diventare importante ci siamo accorti delle conseguenze di quel famoso week end di bel tempo che ha portato gli sciatori in tutte le valle. Lì li abbiamo “visti” i contagi: arrivavano da tutte le valli, dove negli ospedali non potevano mettere in piedi quel che abbiamo a Rovereto. Si sono dati da fare a Cles, Rovereto e Tione ma non potevano creare dei flussi in quelle strutture piccole».

E ora che le misure restrittive durano da tre settimane, si riesce a capire come si contagia la gente?

«L’attenzione alla distanza ed alle misure di sicurezza va mantenuta. L’altro giorno abbiamo fatto una videoconferenza con il direttore Pierpaolo Benetollo che ci ha fatto vedere i dati. Il picco lo abbiamo verosimilmente raggiunto e, in base a scenari diversi di infettività, probabilmente ne avremo per un mese. Aggiungo che io faccio il geriatra e sono un ottimista cronico, ma penso sarà così».

Cosa vi dicono i pazienti?

«Quelli che stanno meglio sono riconoscenti, c’è solidarietà. E poi noi parliamo quotidianamente con le famiglie a cui diamo informazioni cliniche».

Non sarà più come prima vero?

«I primi giorni lo pensavo in sordina, ora lo penso fermamente: ci sarà un prima ed un dopo. Ma prevarrà la voglia di ciascuno di tornare a socializzare. Siamo italiani, non possiamo rinunciare alla musica, alla cucina per esempio. Per la maggior parte di noi non si possono cancellare: una soluzione la troveremo».

Cosa le lascia quest’esperienza?

«Ho visto un fiorire di gesti di impegno, di generosità, di solidarietà tra medici, infermieri, collaboratori che mi fanno dire “ce la faremo e staremo bene ancora”. Pensi che una dottoressa neurologa bravissima è andata a lavorare nel privato e gli ultimi dieci giorni di marzo anziché stare a casa come avrebbe potuto è rimasta a seguire i casi Covid. Abbiamo l’esempio di due medici geriatri da Trento, due specializzandi (uno purtroppo é contagiato). La generosità che ho visto in questo periodo mi ha colpito».

comments powered by Disqus