Rovereto: Premetal a rischio chiusura

La notizia è arrivata in fabbrica con la violenza di uno schiaffo in viso. La Premetal è a rischio chiusura. I contatti in queste ore sono febbrili, per cercare di evitare l’epilogo peggiore. Ma la situazione è estremamente delicata: l’azienda ha annunciato che presenterà richiesta di concordato preventivo e, nel frattempo, cercherà un compratore che rilevi un’attività capace, negli anni, di portare l’edilizia industriale su livelli di qualità apprezzati non solo in Italia. È il colpo di coda della crisi: non è un problema di commesse. E nemmeno di incapacità di rispondere al mercato che si evolve. A spezzare le gambe è il peso dei debiti contratti in un settore in cui gli investimenti sono fermi da ormai troppo tempo. Ed ora rischiano di restare a casa, senza reali prospettive, oltre 50 lavoratori. 
La Premetal, fondata da Gianfranco Pedri e ora guidata dal figlio Marco, progetta e realizza edifici industriali. Con un occhio alla qualità, come ribadisce il sito internet del gruppo, che parla di «edifici sostenibili mediante soluzioni e sistemi integrati, sia dal punto di vista dell’impatto ambientale che del confort delle persone che vivono ed operano al loro interno; edifici ad elevato valore architettonico, a servizio dell’uomo, a basso consumo energetico, dotati di tecnologie avanzate ma accessibili». L’orgoglio è sostenuto dai risultati: era di Premetal, tanto per dirne uno, il padiglione statunitense all’Expo di Milano. Un’attenzione ai dettagli, in un settore solitamente piuttosto spartano, che negli ultimi anni aveva ampliato la propria sfera d’interesse rispetto all’interior design, settore in cui iniziavano ad arrivare le commesse. Ma qualcosa si è rotto. Per trovarne le cause, serve riavvolgere il nastro. 
Premetal ha sempre operato con un approccio preciso: acquistava terreni in aree industriali,  che poi rivendeva con un contratto di realizzazione degli edifici. In questo contesto, il 2008 è stato devastante: i terreni non si vendevano più, e l’industria arrancante non era certo in fila per nuovi investimenti. Risultato: un capitale enorme «bloccato», invenduto. A ciò si aggiungano le commesse pubbliche, altro grande bacino di lavoro per Premetal, di fatto frenate. 
In questo contesto l’azienda ha agito sui costi, e anche i lavoratori hanno pagato un prezzo: dal 2010 al 2015 si sono usati tutti gli ammortizzatori sociali possibili: cassa integrazione, contratti di solidarietà. Nel 2010, il momento più doloroso: la procedura di mobilità per una quindicina di dipendenti. 
Dopo il taglio dei costi, l’azienda era però tornata in equilibrio. Il minimo di ripresa dava fiato all’ottimismo. Restava il debito con le banche. E su quello, nel luglio scorso, si è riusciti a concordare un piano di rientro che dilazionava i tempi al 2018. Ma c’erano dei vincoli: l’azienda doveva restare in equilibrio di bilancio. 
Non sembrava un problema. Persino il nuovo ramo dell’interior design iniziava a ingranare. Poi sono arrivati alcuni inciampi. Un paio di commesse che si sono rivelate meno remunerative del previsto e, soprattutto, due macigni grossi: l’appalto per il Not e quello per Manifattura. L’azienda era della partita, aveva investito centinaia di migliaia di euro, la sua cordata aveva vinto entrambi gli appalti. Bloccati al Tar. Com’è finita è noto: Premetal non opererà in nessuno dei due cantieri. Quelle uscite, aggiunti a quelli delle due commesse in cui i tempi si sono dilatati e con loro i costi, hanno appesantito il bilancio 2016, che non chiuderà in equilibrio. E questo mette in discussione l’accordo con le banche. I tentativi delle settimane scorse - e di queste ore - per tamponare, non sembrano andare a buon fine. E le banche pretendono un rientro. Ecco il problema. Ecco la genesi del discorso fatto ieri ai lavoratori. Un discorso che non lascia grandi margini d’ottimismo.

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