Travolta e uccisa da un camion al semaforo Omicidio colposo: 10 mesi all'autista

di Chiara Zomer

Non è con una condanna che si sanano drammi come quelli di Cristina Pedri, la cinquantaquattrenne morta nel marzo di un anno fa al semaforo di corso Rosmini. E non è nemmeno con un risarcimento, che al massimo aiuterà un po’ i suoi familiari, comunque devastati dalla perdita, che scambierebbero subito l’assegno con una sola serata ancora assieme alla mamma e nonna. Ma la giustizia il suo corso deve farlo comunque. E ieri mattina, davanti al giudice per l’udienza preliminare, si è tenuto il processo con rito abbreviato a carico del camionista ritenuto il responsabile di quella tragedia. La condanna, pur arrivata, è stata tutto sommato mite - 10 mesi con sospensione condizionale, un anno di sospensione patente - ed è stato così perché all’uomo non solo sono state riconosciute tutte le attenuanti possibili (dalle generiche al risarcito danno) ma anche perché probabilmente ci si è resi conto che quel giorno, a quell’incrocio, anche la sfortuna ha giocato un ruolo non secondario.

Si ricorderanno i fatti. Erano da poco passate le 13.30, quando è accaduto. Stando alla ricostruzione che hanno fatto gli inquirenti, sia Cristina Pedri, in sella alla sua bicicletta, sia il camionista, al volante del suo autoarticolato, erano fermi su corso Rosmini, direzione est (quindi verso la piazza), bloccati dal semaforo rosso. Dalle ricostruzioni, i due mezzi erano perfettamente appaiati. Quando è scattato il verde, entrambi sono partiti: lui ha svoltato a destra, verso via Fontana, lei è andata dritta su corso Rosmini. Lo schianto, drammatico e devastante, è stato inevitabile. Il camion ha letteralmente schiacciato la ciclista, a cui non sono serviti i pur notevoli sforzi dei tanti sanitari accorsi. Sul posto, quel giorno, non solo i medici del vicino ambulatorio privato, che sentendo il botto sono accorsi all’incrocio, non solo i volontari della Croce rossa di Folgaria, in quel momento di passaggio, ma anche i sanitari del 118. Perché la situazione era disperata fin da subito, ma non si sono lesinati sforzi. Solo dopo una mezz’ora ci si è arresi al fatto che tutto fosse inutile. Cristina Pedri, donna estremamente conosciuta in città e volto ormai familiare dei tanti clienti del Cisalfa di via Tacchi, morì così.

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Nell’incrocio più frequentato della città. E grande fu la commozione sia per la scomparsa di una persona conosciuta da tanti, sia perché quel giorno la città si accorse all’improvviso che quel semaforo è pericoloso. Perché questo nel corso delle indagini è emerso: il verde su corso Rosmini dà la precedenza nello stesso tempo a chi va dritto verso la piazza e a chi svolta a destra. In caso di auto, non c’è problema: c’è sempre solo un’auto su quella corsia, non ce ne possono essere due. In caso però di bici, la faccenda cambia. Perché tutti i ciclisti accostano le auto ferme al semaforo sulla destra. E nel caso di Cristina Pedri nessuna delle auto ferme dietro al camion si è accorta della bicicletta, che pur c’era. Perché chi pedala non fa rumore, bisogna guardare per vederli passare. E se si è fermi al semaforo difficilmente si guarda a destra e a sinistra.

Nel caso del camion, poi, le dimensioni rendevano estremamente difficile, per l’autista, potersi accorgere che era sopraggiunta una bicicletta, nonostante i doppi specchietti (quello alto e quello più basso) che il mezzo aveva. In questo senso la sfortuna, quel giorno, ha giocato un ruolo non indifferente. Perché era responsabilità dell’autista, accorgersi della bicicletta - da qui la condanna - ma oggettivamente non era semplice per lui vedere la donna, se era sullo stop, quindi davanti allo specchietto ma non davanti al muso del camion.

Ecco forse il perché - ma per capirlo sarà necessario attendere le motivazioni della sentenza del giudice Monica Izzo - della pena non pesantissima, che nemmeno l’accusa voleva tanto più severa (il pm Fabrizio De Angelis aveva chiesto un anno).
Alla fine quel che ha fatto la differenza è stata l’intesa con l’assicurazione: l’accordo per il risarcimento - per il quale il processo era stato rinviato fino a ieri - c’è stato, si è potuto procedere senza parti civili.
Resta, a distanza di un anno e mezzo, il senso di una tragedia. Resta una sentenza che fa giustizia ma non mette a posto le cose. E resta, soprattutto, un semaforo dove nulla è cambiato. E la pericolosità, per le biciclette, è la stessa del marzo 2014.

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