Manfred Pfaender è scomparso a 66 anni Dirigeva la rianimazione del Santa Maria

di Nicola Guarnieri

Ha lottato, da guerriero qual era, ma ha perso la sua battaglia, l'ultima, la più importante. Sapeva che era una lotta impari, che non aveva possibilità di trionfo ma ha resistito, ci ha provato e alla fine ha detto addio, lasciando un vuoto incolmabile non solo nella sua famiglia ma nella città intera.

Manfred Pfaender si è spento l'altra sera a 66 anni. Pochi, troppo pochi per andarsene di brutto anche dopo una vita di impegno, di collaborazione, di volontariato e di mestiere, di quelli difficili, che salvano le persone. Primario del reparto di rianimazione e anestesia del Santa Maria del Carmine è stato uno degli artefici della crescita dell'ospedale lagarino. Che, non a caso, ha pure diretto per qualche anno in assenza di un ruolo indicato dall'Azienda sanitaria provinciale. Un periodo di reggenza che è valso più di una medaglia alla struttura di corso Verona. Un presidio a cui teneva moltissimo, da difendere con i denti e da specializzare a tutti i costi perché i cittadini meritano di trovare competenza, professionalità e umanità quando finiscono in corsia.

[[{"type":"media","view_mode":"media_large","fid":"564606","attributes":{"alt":"","class":"media-image","height":"378","width":"358"}}]]

E poi il basket, quel senso di sport come veicolo sociale che lo ha accompagnato fino all'ultimo. Tant'è che è ancora presidente della San Marco e lo sarà per sempre. Certo, fisicamente sarà lontano e non più in palestra o nei palazzetti dove i suoi ragazzi prendevano a pallonate un cesto appeso ma mentalmente, spirtualmente, sarà sempre a bordo parquet: a incitare, ad applaudire, a sorridere e, perché no, a riprendere chi sgarra.
Al di là del lavoro e del passatempo con la palla a spicchi, però, la vita di Manfred Pfaender rappresenta una storia nella storia, di quelle da raccontare perché il mondo andrà pure avanti senza di noi ma ricordarsi di chi c'era aiuta a non inciampare in un filo d'erba.

[[{"type":"media","view_mode":"media_large","fid":"564611","attributes":{"alt":"","class":"media-image","height":"325","width":"480"}}]]

Era un napoletano tedesco orgogliosamente lagarino. Uomo di mondo, insomma, e addirittura europeo prima ancora che l'Unione decidesse di adottare una bandiera blu piena zeppa di stelle. A Napoli c'è nato: anni magri, con la Seconda guerra mondiale archiviata bruciando solo qualche calendario e una ripresa collettiva che stentava ma che era sorretta dalla voglia di rilanciarsi. Era il 26 febbraio 1949 e Manfred era nel capoluogo partenopeo con la famiglia. Tedesca, appunto. Qui ha studiato, si è laureato in medicina a 25 anni appena compiuti, tra i più giovani d'Italia. Orgoglio di casa, ovviamente, ma anche dell'università Federico II, capace di «sfornare» un dottore praticamente in fasce e con il massimo dei voti. 

L'Europa, si diceva, politicamente era ancora lontana e Manfred, essendo cittadino teutonico, è stato costretto ad emigrare in Germania per potersi specializzare in anestesia e rianimazione.  Ma questi viaggi obbligati rappresentano il capitolo di un'altra bella storia, di amore e famiglia. Ad accompagnarlo, a stargli sempre al fianco c'era infatti un angelo, Maria Paola Aguglia. Un legame forte, fortissimo, indissolubile. Anche in questi ultimi giorni di sfida al destino Maria Paola è rimasta accanto a lui, stringendogli forte la mano. È stato così per decenni, addirittura per mezzo secolo. Si erano conosciuti in età verdissima: lui 18enne, lei 14enne. Uno sguardo, un sorriso, una carezza per un amore diventato praticamente eterno.

Insieme hanno varcato il Brennero, hanno festeggiato l'incarico di aiuto primario a Bolzano a soli 37 anni e poi di nuovo verso Sud, stavolta con l'ultima tappa, Rovereto: lui all'ospedale di corso Verona, siamo agli albori degli anni Novanta, e lei professoressa alle Filzi e poi al liceo Rosmini. Per il Santa Maria del Carmine, che allora si chiamava semplicemente ospedale civile, l'arrivo di Manfred Pfaender è stato come la manna caduta dal cielo: perché va bene il lavoro ma quel che conta, per uno dei luoghi più importanti di una comunità, è la difesa e il rispetto della dignità dei pazienti, al di là del concetto tutto moderno di utente-cliente. No, non era questo lo spirito di Manfred: il malato non è un acquirente di servizi, ma una persona di cui prendersi cura al meglio e a cui sorridere, per certi versi da coccolare. Ha portato questo nei reparti, ha portato la passione per un mestiere non facile ed ha pure «inventato» il 118, formando da zero il pronto intervento. 

I corsi li teneva personalmente e sulle ambulanze, alle prime uscite, c'era anche lui. «Era un leader naturale», dicono di lui. E domani, alle 14, saranno in tanti a salutarlo: ciao Manfred, che la terra ti sia lieve.

comments powered by Disqus