Livo / La storia

Nel cassetto c'era la cartolina scritta al fratello deportato in Germania

Spunta uno scritto risalente al 1944 e che Ida Calovini aveva inviato all’amato fratello Oreste

di Fabrizio Brida

LIVO. Una cartolina, uno scritto, un testo semplice ma significativo riscoperto in questi giorni a Livo ci fa tornare indietro di oltre 77 anni, al 1944, quando la Seconda Guerra Mondiale imperversava in Europa.

«Fatti coraggio e tutto avrà una fine»: parole di speranza, che possono essere d’aiuto – anche se in contesti molti diversi – nell’attuale situazione di pandemia e riescono a creare un parallelo con i momenti drammatici della guerra vissuti un tempo anche in Val di Non.

Ci troviamo a Livo, frazione Preghena.

Dimenticata in un cassetto di casa e ritrovata da Olga Calovini e dalla figlia Letizia Zanotelli, riemerge dopo decenni una “Antwort Postkarte” (Cartolina postale di risposta) precompilata in doppia lingua, tedesco e italiano. Durante la guerra era consuetudine comunicare con i parenti deportati nei campi di concentramento utilizzando appositi moduli, messi a disposizione dagli enti preposti alla gestione dei contatti tra prigionieri e mondo esterno.

Si tratta della “Kriegsgefangenenpost”, ovvero la Corrispondenza dei prigionieri di guerra, che veniva accuratamente verificata ed eventualmente censurata. In questo caso la cartolina era partita dall’ufficio postale di Livo nel mese di maggio del 1944 ed era arrivata a luglio dello stesso anno a destinazione, in Germania, nel campo di concentramento Stammlager (Campo base) o Stalag III D, situato nel Distretto militare di Berlino.

La cartolina è scritta da Ida Calovini all’amato fratello Oreste, internato nel Campo di lavoro di Berlino, e recita così (riportiamo il testo integrale, inclusi gli errori grammaticali): «Carissimo fratello, di quore vengo a tè col dirti del nostro statto di Salutte, tutti noi e parentti e desidero sia altrettanto di te caro, ora fatti sempre coragio e tutto avrà una fine. Ora io mi sono sposata e mi trovo benisimo e ci aiutiamo tutti assieme e tutti sono contentti e spero sia contentto anche te non veddo l’ora di abraciarti. Salutti di me e anche tutta la famiglia».

La storia, per fortuna, avrà un lieto fine.

Al termine del conflitto, Oreste Calovini, classe 1914, viene liberato nel 1945 e riesce a tornare in Val di Non. Si sposa con Giuseppina Gentilini e trascorre la sua vita a Preghena, lavorando nei campi. Tra il 1950 e il 1960 avrà 6 figli: Giacinta, Angela, Fernanda, Danila, Olga ed Eraldo.

Ci ha lasciati nel 1987. Come la maggior parte dei prigionieri dei lager, non ha mai voluto rivivere e raccontare compiutamente a figli e nipoti la sua storia, lasciando alle spalle tristi ricordi, sofferenze atroci e anni trascorsi lontano dagli affetti domestici, con l’incertezza del vivere quotidiano, lavorando duramente più di 10 ore al giorno. Un caso di deportazione, questo, tra i tanti in Val di Non. Ma anche un significativo esempio di vita che porta con sé un bel messaggio di speranza.


Come in tutta la Germania, durante il Secondo Conflitto Mondiale anche a Berlino si fece sentire il problema del reperimento della manodopera per sostenere le opere di costruzione e l'economia di guerra.Fra il 1939 e il 1945, a Berlino furono oltre 400 mila i lavoratori stranieri (per lo più prigionieri di guerra) occupati nelle industrie degli armamenti.

Gruppi di lavoratori civili italiani vi giunsero in base agli accordi fra Hitler e Mussolini quando ancora Germania e Italia erano alleati dell'Asse, ma il grosso fu portato dopo l'8 settembre 1943: furono infatti circa 38 mila i prigionieri di guerra italiani internati nello Stalag III D di Berlino e facenti parte delle numerosissime squadre di lavoro impiegate in opere di costruzione o in industrie. Nelle circoscrizioni centrali della città le ditte affittarono locali, hotel e cantine per alloggiarvi i "loro" lavoratori forzati. In quelle più periferiche fecero costruire campi di baracche.

Ognuna era suddivisa in 10/12 stanze, in ciascuna delle quali potevano stare fino a 16 detenuti. Il campo era cinto da filo spinato, non vi erano torri di guardia, ma il cancello era sorvegliato da guardie armate. Dato l'elevato numero di italiani presenti fu chiamato anche «Italienerlager», «campo degli italiani».

Nel 1945 fu più volte bombardato e, durante gli attacchi, gli occupanti cercavano rifugio nelle cantine delle baracche.Nella numero 13 rimangono le tracce di quei passaggi: nomi e date scritte sui muri accanto ai «Vietato fumare» e «Riservato».

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