Zambana, l'anniversario

Memorie e racconti dei testimoni di allora

Erano stati cinque mesi da incubo per i vecchi «Zambanoti». Vivono ancora con l’immagine negli occhi di quell’enorme massa di fango e sassi che spazzò via il loro paese. «Nella sfortuna fummo anche fortunati, poiché non si contò alcun morto o ferito», racconta l’arzilla Giuseppina Marcolla, classe 1929, che ricorda persino l’ora delle frane che costrinsero i 670 abitanti dell’epoca ad abbandonare le loro case.

«Mi ricordo tutto come se fosse successo ieri. Il giorno di Santa Caterina, il 25 novembre del ‘55, un’enorme nube di polvere ricoprì l’intero paese. Era da poco mattino: la polvere riportò il paese nel buio, offuscando le prime luci del giorno. Mio marito, Mansueto Bonadiman, era appena uscito di casa per andare a tagliare la legna nei boschi della val Manara con altri uomini del paese; io ero sola e, dal terzo piano dove abitavo, ho preso in braccio i miei due figli piccoli cercando riparo in uno scantinato. Poi ci sfollarono e, per un breve periodo, andai a vivere nella frazione Masi di Vigo di Ton.  Però, con mio marito, decidemmo di fare i clandestini: all’insaputa di tutti tornammo a vivere nella nostra casa, vicino al cimitero, ben sapendo che non si poteva. Il 5 febbraio del ‘56, ricordo bene questa data perché in quel giorno morì mio suocero, i tetti di tutte le case erano ancora coperti da due o tre dita di quella polvere caduta due mesi prima. Quell’inverno, non ci furono né pioggia, né neve».

Allora, il 16 aprile del ‘56, ha visto nuovamente la sua vita in pericolo?

«Sì, erano le sette e un quarto. Quando ho sentito quel boato, mi sono affacciata impietrita alla finestra di casa: sembrava la fine del mondo. Sassi, fango, acqua e ghiaia spazzavano via tutte le case disabitate del centro storico. Fortunatamente la zona dove abitavamo noi non è stata interessata dalla frana ma ho rifatto la solita fuga con i bambini, a fatica poiché ero al nono mese di gravidanza. Infatti, il terzo figlio nacque otto giorni dopo, quando fui sfollata a Lavis».

Ricordi indelebili che albergano anche nella mente di Lorenzo Bottamedi, 69 anni: «All’epoca abitavo a Nave San Rocco. Stavo andando a scuola quando ho visto quell’enorme nuvola di polvere, accompagnata da un frastuono assordante, precipitare su Zambana Vecchia. Il mio pensiero corse subito ai miei parenti: i Gasperi, i Casotti, i Galvagni, che abitavano tutti vicino alla stazione della funivia. Ma poi mi ricordai che il paese era già stato evacuato e quindi mi tranquillizzai subito».

Camillo Pilati, 77 anni, non dimenticherà mai quelle drammatiche giornate: casa sua è piena di fotografie appese alle pareti e documenti dell’epoca: «Prima, nel novembre del ‘55, si staccò il diedro che già da tempo minacciava di precipitare sul paese. Fortunatamente, quel masso gigantesco si arenò nei pressi della diga del rio Maor, mentre franò dal rio Secco un’enorme quantità di ghiaino. Si sapeva che a primavera, con lo scioglimento delle nevi, il pericolo era a livello massimo, così il paese venne evacuato e vivemmo nelle baracche di legno costruite dove oggi c’è Zambana nuova. Persino la chiesa era stata ricavata in una di queste baracche. In tanti, però, ricevemmo il permesso per venire di giorno in paese a coltivare le campagne o accudire le bestie ricoverate nelle stalle. Quel giorno di aprile fu la tromba di Lino Franceschini, mi pare si chiamasse così, a dare l’allarme».

La tromba?

«Sì: era un pompiere e, sapendo che il pericolo sul paese era imminente, saliva tutti i giorni sul Dos de Carneval (uno spuntone di roccia ai piedi della Val Manara, ndr) a tenere sott’occhio il movimento del materiale inerte che minacciava di precipitare da un momento all’altro. Al suono della tromba, tutti scapparono dai campi e dalle stalle; alle nostre spalle, ci inseguiva una spaventosa massa di fango alta più delle case. Vedevo i tetti galleggiare su questa massa: un’immagine che non potrò mai dimenticare».

Il sindaco, Renato Tasin, conosce vita, morte e miracoli della frana dai racconti di suo padre. «Io ho vissuto di riflesso quei drammatici momenti. I miei genitori mi portavano spesso dove c’era la stazione di partenza della funivia che saliva verso Fai, spiegandomi che quello era il luogo di ritrovo dei “Zambanoti” e che mio nonno faceva il controllore proprio sulla funivia, vidimando i biglietti dei tanti turisti che salivano a Fai. Come amministrazione, comunale, siamo molto attenti alla rinascita di Zambana e ci stiamo adoperando per far rivivere l’antico borgo ai piedi della Paganella». È la sfida dei «Zambanoti» che lottano per difendere la loro identità e non vogliono abbandonare, tanto meno cancellare dalla loro memoria, il paese che la frana, sessant’anni fa, aveva spazzato via.

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